Le prime teorie sul diritto a noi note risalgono agli antichi pensatori greci (Eraclito, Parmenide, Empedocle, Pitagora), che, interrogandosi sulla natura di questo fenomeno sociale, tendono ad identificare l’ordine giuridico della società con un ipotetico ordine naturale dell’universo e a concepire un diritto universale e perfetto, che dovrebbe fungere da modello per le leggi umane. Il diritto esiste già come legge di natura. L’uomo non lo crea, lo scopre, non lo inventa, lo applica, non lo produce, lo riceve. È una concezione di tipo giusnaturalista, che sarà condivisa da Socrate, Platone, Aristotele e, in generale, dagli stoici, alla quale si oppongono i sofisti, gli epicurei e gli scettici, i quali sostengono la relatività delle conoscenze e delle istituzioni umane e, di conseguenza, vedono nel diritto un prodotto umano, imperfetto come tutte le cose umane. Ora, prevalendo, almeno a livello accademico, la concezione giusnaturalistica, i greci non ritengono di dover elaborare un’idea del diritto come scienza, allo stesso modo in cui hanno invece elaborato l’arte di fare politica: la politica è una questione di uomini, il diritto è una questione di natura. Il diritto è sacro e trae la sua sacralità dal fatto di essere sempre esistito, di far parte della consuetudine o di rappresentare una precisa volontà divina. La società lo trova già predisposto e lo sente come immutabile. Il diritto è la giustizia; non un oggetto di decisione, ma di conoscenza, e la politica dovrà subordinarsi ed ispirarsi ad esso.
Presso gli antichi predomina quest’idea che le leggi umane provengano da altrettante leggi divine e, dunque, è diffusa la convinzione che il diritto sia qualcosa di eterno, universale e immutabile, fissato dalla divinità (o dalla natura) una volta per tutte e che poi gli uomini traducono nelle loro leggi, che, in tanto sono valide, in quanto riproducono fedelmente i comandi divini o naturali. Ne consegue un primato del diritto sulla politica. Bisogna aspettare Eraclito perché tale dottrina venga, per la prima volta, enunciata con chiarezza, seguito da Platone, che fonda il diritto sull’idea di Bene, e da Aristotele, che distingue una legge universale, valida per tutti gli uomini, dalle leggi particolari (il cosiddetto diritto positivo). Sulla loro scia, gli stoici possono elaborare una teoria sistematica sulla cosiddetta legge naturale (legge universale, non scritta), che riconducono, in ultima analisi, alla ragione divina (logos). [La dottrina stoica si adatterà bene al pensiero cristiano e verrà largamente condivisa lungo tutto il medioevo.]
È opinione diffusa nell’antichità che le leggi scritte servano a garantire l’ordine sociale e a preservare lo Stato, e si ritiene anche che questa funzione pratica delle leggi scritte dipenda sia dall’esistenza di giurisperiti capaci di formularle, sia di un apparato giuridico, ampio e articolato, in grado di leggerle, comprenderle e farle rispettare. Ebbene, è presso gli antichi greci che, per la prima volta nella storia, si realizzano condizioni di questo tipo. Ad Atene, per esempio, non solo molti cittadini sono in grado di leggere e comprendere le leggi pubblicamente esposte nell’agorà, ma sono anche capaci di applicarle nei tribunali popolari. Di più: per la prima volta nella storia, molti pensatori greci maturano, come abbiamo visto, una chiara coscienza del fatto che le leggi non cadono dal cielo, non provengono da un dio, bensì sono opera degli uomini e, come tali, esse non costituiscono alcunché di misterioso o sacro, assolute o immutabile, ma sono contingenti, relative e perfettibili. Scrive Epicuro: “Non è la giustizia un qualcosa che esiste di per sé, ma solo nei rapporti reciproci e sempre a seconda dei luoghi dove si stringe un accordo di non recare né ricevere danno” (
Massime capitali, XXXIII). Ora, se ogni popolo crea le sue leggi, e lo fa in rapporto alla sua storia, alla sua cultura e alle sue esigenze, lo stesso popolo può cambiarle e, in questo senso, il popolo è da ritenere superiore alla legge: l’assemblea è sovrana. Per la prima volta nella storia, i greci maturano consapevolezza del significato strumentale delle leggi, la cui esistenza si rende necessaria allo scopo di consentire una vita collettiva ordinata. Sotto questo aspetto, la legge è, e deve essere, superiore al singolo cittadino e tutti i cittadini sono, e devono essere, uguali davanti alla legge.
Su questi presupposti, gli ateniesi edificano un apparato giuridico e giudiziario di tipo adulto e partecipativo, nel quale l’assemblea dei cittadini promulga le leggi generali, che poi le giurie interpretano e applicano nei singoli casi concreti, tenendo conto del particolare momento e del particolare contesto. Insomma, gli ateniesi non si preoccupano di codificare rigidamente le norme di un diritto, che preferiscono lasciare alla libera interpretazione dei tribunali. Non possiamo dire che questo sistema sia privo di difetti: a volte il verdetto dei giudici può sembrare troppo arbitrario, troppo condizionato e condizionabile, troppo soggettivo e troppo libero, eppure non sembra che esso sia segnato da atti di mala giustizia più di quanto avvenga nei tribunali di altre città coeve della Grecia o di altre aree geografiche.
Nella Grecia arcaica i beni immobili appartengono alla collettività, che li assegna e li toglie a sua discrezione. La proprietà privata piena e individuale si afferma lentamente in seguito della diffusione della moneta, e cioè a partire dalla fine del VII secolo, ma solo parzialmente: significativo il fatto che i greci non hanno un termine proprio che indichi la proprietà privata del singolo cittadino. Per quel che concerne l’istituto familiare, basta ricordare che in tutto il mondo antico, in Egitto come in Mesopotamia, in Grecia come a Roma, la società è basata su un’entità collettiva di persone imparentate (la famiglia allargata, la gens, il clan, la stirpe, o qualunque altro modo in cui si voglia chiamarla, della quale fanno parte anche gli eventuali schiavi), che è tenuta unita da una figura centrale, generalmente il più anziano di sesso maschile, il quale si fa garante della memoria storica di un’ascendenza che si perde nella notte dei tempi.
A differenza dei greci, i romani si impegnano in un’impresa mai tentata prima: quella di raccogliere in modo metodico le norme giuridiche che vanno emergendo dalla consuetudine e di realizzare una grande opera, che potrà essere consultata dai giuristi in tutto l’impero. Quest’opera, che costituisce una sintesi di tutta l’attività giuridica svolta dai romani nell’arco di un millennio, a partire dalle XII Tavole, giungerà a compimento sotto Giustiniano e passerà alla storia col nome di «diritto romano», ma, agli inizi della storia di Roma, il diritto è concepito in modo diverso.
Fino a tutto il periodo monarchico, il diritto romano cala, per così dire, dal cielo; esso cioè ha carattere religioso e la sua interpretazione è affidata al re, in quanto rappresentante supremo del dio, e ai funzionari che il re intenda nominare, di solito capi militari, nonché ai sacerdoti, che abitualmente sono di estrazione elitaria. A rigore, non si tratta di leggi umane, ma del volere divino, che è interpretato da un uomo prescelto dalla stessa divinità (
lex divina). A queste leggi positive si associa il variegato corpo delle norme consacrate dalla tradizione, le cosiddette «norme consuetudinarie» (i costumi dei padri o consuetudini locali). Fin qui non notiamo nulla di nuovo rispetto ai tempi di Hammurabi.
La necessità di leggi scritte viene avvertita ai tempi delle rivolte dei plebei, che caratterizzano i decenni della storia romana dopo la caduta della monarchia (510). Si racconta che nel 462 vengono nominati dieci magistrati (decemviri) con l’incarico di redigere un codice di leggi valide per patrizi e plebei. Ne nasce un Codice di leggi (450), che, dopo essere stato approvato dai comizi centuriati, viene inciso su Dodici Tavole di bronzo ed esposto nel Foro, dove rimarrà per sessant’anni, fino a quando cioè il Foro non viene distrutto nell’incendio di Roma ad opera dei Galli (390). [Non risulta che ne sia fatta una copia e, dunque, il testo dovrà essere tramandato oralmente o testimoniato in opere di autori diversi. Pare che lo scopo dichiarato delle XII Tavole fosse quello di liberare i plebei dall'arbitrio insostenibile della nobiltà patrizia, ma non sembra che tale obiettivo sia stato raggiunto pienamente.] Le XII Tavole rappresentano un esempio di
leges datae, ossia di una legge elaborata da un’apposita Commissione, cui il popolo ha delegato tale potere, in via straordinaria. Nel periodo repubblicano, la prassi ordinaria prevede che una legge venga presentata all’assemblea del popolo da un magistrato, il quale chiede al popolo stesso di approvarla. Si parla in questo caso di lex rogata (da rogare = chiedere, interrogare). Di solito le
leges rogatae portano il nome del magistrato proponente.
Tramontata la repubblica, cessa il ricorso alle assemblee popolari e le leggi sono emanate, almeno formalmente, dal Senato (
senatusconsulta), dai singoli pretori (
leges praetoriae) e, soprattutto, dall’imperatore (
constitutiones principum), che costituisce la massima autorità legislativa e la principale fonte del diritto. I provvedimenti dell’imperatore possono assumere forme diverse: edicta (atti normativi rivolti a tutti i cittadini dell'impero);
mandata (istruzioni indirizzate agli alti funzionari, che finiscono per diventare norme vincolanti per tutti);
decreta (sentenze che l’imperatore emana su istanza delle parti, che rimettono all’imperatore la risoluzione di una controversia);
rescripta (sono risposte date dall’imperatore a chi lo sollecita in merito a qualche questione. A differenza dei decreti, i rescritti vengono sollecitati da una sola parte). Non raramente finiscono per assumere valore di legge anche i pareri (consulta, responsa) espressi da singoli magistrati o giureconsulti, come Gaio, Paolo, Papiniano, Ulpiano e Modestino, tutti uomini che ricoprono alti incarichi a corte, tra il secondo e terzo sec. d.C.. Il primo corpo organico del diritto romano dopo le XII Tavole si forma progressivamente tra il 367 a.C. e 137 d.C. ad opera di pretori incaricati di risolvere le contese fra cittadini (
ius civile) e fra cittadini e stranieri (
ius gentium).
Dopo l’estensione del diritto di cittadinanza a tutti gli abitanti dell’impero (editto di Caracalla), la distinzione fra i due diritti perde di senso e rimane solo lo
ius civile che, in realtà, è composto da tanti diritti diversi da provincia a provincia. Inizialmente, allo scopo di risolvere gli inevitabili conflitti tra i diversi diritti locali, si chiama in causa il senato o l’imperatore, i quali si possono servire della consulenza di esperti giuristi. Col passare del tempo, l’insieme dei pareri degli imperatori, del senato e dei giurisperiti finisce per creare un diritto romano uniforme e coerente, che può essere distinto in diritto privato, che attiene a beni dei singoli, e diritto pubblico, che riguarda i rapporti fra le magistrature.
Si deve all’imperatore Giustiniano la nomina di una commissione di dieci esperti col compito di realizzare una raccolta organica di tutta la produzione giuridica romana. Ne origina una monumentale opera, il
Codex Iustinianus o
Corpus iuris civilis, che viene pubblicata a partire dal 529 e che comprende: le
Institutiones (una sintesi del diritto esistente), un
Codex, che raccoglie numerose istituzioni imperiali, le
Novellae (nuove costituzioni), il
Digestum (vi sono illustrati i fondamenti del diritto classico).
Il diritto romano è centrato sulla divisione della popolazione in cittadini, liberti e schiavi. Gli unici soggetti che godono pienamente dei diritti politici sono i cittadini, anzi, per meglio dire, le loro famiglie, con importanti differenze in rapporto al censo. La famiglia è considerata un insieme di persone soggette alla potestà di uno solo, il padre, detto
paterfamilias, che in pratica è l’unico cittadino che gode veramente dei diritti sociali e politici: non solo i minori, ma anche la donna è soggetta all’autorità del marito. Lo schiavo è considerato una «cosa», ossia un bene di proprietà del padrone, che però, a causa di particolari meriti, può essere affrancato dal padrone e assumere la condizione giuridica di liberto. Il diritto romano crea molteplici istituti che regolano la proprietà privata e distingue una proprietà indivisa del gruppo gentilizio dalla proprietà assoluta, piena ed esclusiva del
paterfamilias. Del tutto ignorati sono invece i diritti fondamentali della persona: l’individuo diventa soggetto di diritto solo in quanto membro di una famiglia.
Al di là delle diverse elaborazioni teoriche e applicazioni pratiche del diritto, la realtà dimostra che, in fondo, il diritto corrisponde alla volontà del più forte, ossia di colui che dispone dei mezzi coercitivi atti a farlo rispettare. È il giurista romano Ulpiano a fissare questa acquisizione culturale nel suo celebre principio giuridico: “quanto piace al principe ha valore di legge”. La volontà del principe è il diritto. Il fatto è che la volontà del principe non potrebbe essere il diritto se lo stesso principe non fosse il più forte. E ciò vale anche se, al posto del principe, ci mettiamo un Consiglio oligarchico, un Parlamento o un’Assemblea popolare: nessun organo può esprimere un codice di leggi e tradurlo in diritto applicato se non disponga della forza necessaria a far rispettare quelle leggi.