lunedì 10 agosto 2009

13. La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino

Ai tempi della Rivoluzione francese, i princìpi emersi nel corso della riflessione politica americana, insieme a quelli sollevati dall’illuminismo, si fondono dando origine ad un modo nuovo di concepire il cittadino e lo Stato. Emblematica del nuovo corso è la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789) promulgata ad opera dei rappresentanti del Terzo Stato, la quale, mentre di fatto decreta l’atto di morte dell’Antico Regime, può essere vista come l’atto di nascita dello Stato moderno, liberale e costituzionale, fondato sul riconoscimento dei diritti dei cittadini, che non si limitano a quelli enunciati da Locke (vita, libertà, proprietà), ma ne abbracciano tanti altri, come quelli all’istruzione, al lavoro e alla salute. È così che si affaccia alla storia lo Stato di diritto. In esso si proclama che “gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti” (art. 1). L’art. 2 specifica che i diritti di cui si sta parlando “sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione”, e stabilisce che “il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali ed imprescrittibili dell’uomo”. Della proprietà privata si dice che essa costituisce “un diritto inviolabile e sacro” (art. 17), mentre si riconosce una sorta di primato al diritto alla libertà. “La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri” (art. 4). Dal diritto alla libertà, genericamente intesa, scaturiscono altri diritti più specifici, come quello della libertà di pensiero e di opinione (art. 10-11): “ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo a rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla Legge” (art. 11). Un altro diritto riconosciuto è quello dell’uguaglianza di tutti di fronte alla legge (art. 6). Benché non vi sia esplicitamente espressa, l’uguaglianza di opportunità è riconosciuta a tutti i cittadini e, con essa, il principio meritocratico: “Tutti i cittadini […] sono ugualmente ammissibili a tutte le dignità, posti ed impieghi pubblici secondo la loro capacità, e senza altra distinzione che quella delle loro virtù e dei loro talenti” (art. 6). Su alcuni punti la Dichiarazione appare poco chiara o equivoca. Per esempio, quando si legge che “tutti i cittadini hanno diritto di concorrere, personalmente o mediante i loro rappresentanti, alla sua formazione” (art. 6), non è chiaro se si ritenga possibile una democrazia diretta; mentre equivoca appare l’espressione russoviana: “la Legge è l’espressione della volontà generale” (art. 6).
Il contenuto della Dichiarazione suscita fra gli intellettuali dell’epoca un vivace dibattito, che ha l’effetto di tenere viva l’attenzione sui diritti. Edmund Burke (1790) antepone i concreti “diritti degli inglesi”, conquistati sul campo e trasmessi di generazione in generazione, agli astratti diritti proclamati a parole dalla Dichiarazione, ma non applicati di fatto. Gli risponde Thomas Paine (1791), il quale rileva che quei diritti, conquistati o meno sul campo, non sono legati al censo, ma spettano ad ogni singolo uomo “in virtù della sua esistenza”, sono cioè diritti democratici e non aristocratici, come quelli inglesi.

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