lunedì 10 agosto 2009

6. Alle origini del diritto: la civiltà urbana nell’età del rame

L’esigenza del diritto viene avvertita all’interno delle città, dove i legami naturali di coesione sociale sono deboli e la legge del più forte lasciata a se stessa, ossia lo stato di guerra continua di tutti contro tutti, è davvero intollerabile. Il diritto origina dalla guerra, che non è solo guerra tra famiglie e clan di una stessa città, ma è anche guerra fra una città e l’altra. Di norma, un condottiero vittorioso compensa i capiclan che lo hanno sostenuto, distribuendo loro una parte delle terre conquistate e degli schiavi catturati, in rapporto ad eventuali accordi preventivi o al valore dimostrato in battaglia.
Nella città la società assume un aspetto piramidale, e per la prima volta, si affacciano sul proscenio della storia i fenomeni della ricchezza e della povertà. I ricchi possiedono terre e schiavi, i poveri solo la forza delle proprie braccia. I primi sono pochi e vogliono rendere stabile lo status quo, i secondi sono tanti e sognano un mondo diverso. Nelle città le classi più povere sono turbolente e fomentano ribellioni, sommosse, attentati, furti, rapine, saccheggi e atti criminali di ogni genere, mentre i ricchi devono difendere i loro averi dalla bramosia di queste masse fameliche. Di solito sono gli «straccioni» ad avere la peggio, ma non è raro che la stessa sorte tocchi anche a qualche ricco signore. Questa situazione d’instabilità viene avvertita come problema prevalentemente dai ricchi, i quali, avendo molto più da perdere, vogliono un clima di pace; è, invece, gradita ai poveri, i quali vedono in essa un’occasione per migliorare la propria posizione.
La società urbana appare profondamente diversa rispetto a quella tribale, sia sotto il profilo della densità demografica sia per il tipo di legami che tengono coesa la collettività, sia per la divisione del lavoro e la stratificazione sociale. Se prima una tribù di mille persone imparentate occupava un territorio di mille Kmq, ora 5 mila persone estranee vivono in uno spazio di 2-3 Kmq, suddivise in tanti piccoli gruppi familiari, ciascuno con un proprio distinto ruolo sociale: ci sono le famiglie dei sacerdoti e dei funzionari, le famiglie del condottiero e dei guerrieri, quelle degli artigiani, dei contadini e delle popolazioni assoggettate risparmiate dalla spada.
In qualità di amministratore delle risorse del tempio, il sacerdote vive nell’abbondanza, libero dalla necessità di doversi procurare il necessario col proprio lavoro, e così pure i capiclan, che si sono spartiti i beni e le persone dei vinti. Anche se ancora non si è affermato il principio giuridico di proprietà privata, tuttavia, quanti sono riusciti ad impossessarsi di un bene cominciano a comportarsi come se quel bene appartenga loro di diritto e possa essere trasmesso in eredità ai discendenti. Tale è il caso del sacerdote, che gestisce il tempio come se fosse una sua proprietà privata e tende a trasmetterlo ai propri figli insieme agli altri beni. Allo stesso modo si comportano i capiclan: controllano un territorio, di cui sfruttano le risorse, e lo difendono da eventuali intrusi e, quando muoiono, lo lasciano ai figli. Ecco allora che la società si scinde in modo sempre più netto: da un lato, c’è un esiguo numero di famiglie proprietarie, che affidano le loro terre alla cura di schiavi o di persone sottomesse, dall’altro, c’è la stragrande maggioranza delle famiglie, artigiane e contadine, che vivono del proprio lavoro.
Il diritto nasce qui, in queste società urbane ove vige una complessa organizzazione e divisione del lavoro, ed è favorito dalla conoscenza di un linguaggio simbolico e dall’occorrenza di prolungate tensioni sociali, che vedono opposti i poveri ai ricchi, soprattutto nei casi in cui nessuna famiglia sia così potente da imporsi sulle altre. In una siffatta situazione, quando le forze in campo sono in equilibrio e non si intravedono condizioni atte a determinare l’egemonia di un gruppo, il timore di logorasi reciprocamente e di rischiare inutilmente le proprie vite, induce le parti in lotta a ricercare la pace sociale e ad accordarsi su alcune norme di diritto.
Generalmente, l’interesse dei proprietari è tale da indurli a stare uniti e a promettersi un mutuo sostegno per tutelarsi nel caso in cui la proprietà di uno di loro venga minacciata da qualcun, ma poiché spesso ci si dimentica della promessa, si decide di eleggere un garante, un primus inter pares, che finisce col diventare re. L’avvento della monarchia costituisce una svolta decisiva nella genesi del diritto. Il diritto, infatti, serve soprattutto al re per conservare il proprio regno e trasmetterlo in eredità ai suoi discendenti. Preziosa in questo senso si rivela l’opera degli scribi, i quali s’impegnano a comporre opere letterarie di legittimazione del potere e della proprietà. A loro dire, il re discende da un qualche dio o è stato posto sul trono per volere di qualche dio o è egli stesso un dio e, in quanto tale, non solo è legittimato a comandare, ma ha anche la facoltà di legittimare i suoi collaboratori. È questo il fondamento del diritto nelle città-stato nell’età del rame.
Ora, se può apparire “normale” che le terre appartengano a chi le ha conquistate col proprio valore ed il proprio coraggio ed a rischio della propria vita, è meno scontato che tale diritto venga riconosciuto ai discendenti del conquistatore, specie quando questi non dimostrano di possedere le stesse qualità del loro illustre predecessore. Ed è proprio per questo che il re ha bisogno del diritto. Infatti, come osserverà Rousseau, “il più forte non è mai abbastanza forte per essere sempre il padrone, se non trasformi la sua forza in diritto e l’obbedienza in dovere” (Il contratto sociale I,3). Quel che vale per il re vale anche per tutti quei capiclan fra i quali il re ha distribuito le terre conquistate. Insomma, il diritto serve per conservare la proprietà dei signori, in aggiunta al principio di forza. Per il momento, non costituisce una branca autonoma del sapere umano, ma si limita a prendere in prestito i contenuti dei miti e delle tradizioni locali, che i letterati di corte provvedono a rielaborare in funzione degli interessi del re e del suo entourage. Dove non c’è proprietà privata non c’è nemmeno diritto. Il diritto nasce e si afferma insieme alla proprietà privata e, se difende la vita, lo fa perché anche la vita è qualcosa che appartiene a qualcuno, anch’essa è divenuta una proprietà.
In origine, il diritto non tiene conto dei bisogni delle persone, ma dell’interesse dei potenti. Infatti, gli antichi codici (i Dieci comandamenti, il Codice di Hammurabi, le Leggi delle XII Tavole) contengono essenzialmente comandi o divieti, dunque sono orientati al dovere delle persone piuttosto che ai loro diritti. Le leggi hanno lo scopo di tutelare l’ordine sociale e, perciò, restringono la libertà individuale. Esse esprimono il punto di vista del pastore, del padre, del nocchiero, e via dicendo: per il gregge (il popolo) non c’è posto. Del cittadino non si parla. “L’individuo singolo è essenzialmente un oggetto del potere o tutt’al più un soggetto passivo” (BOBBIO 1992: 57). Il bene e il male è visto in funzione dello Stato o del re. “Il problema morale è stato considerato originariamente dal punto di vista della società più che dall’individuo” (BOBBIO 1992: 55).

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