Il problema è che a garantire la soddisfazione dei diritti è quello stesso Stato che, fondandosi su rapporti di forza, deve farsi garante dei privilegi guadagnati sul campo dai gruppi dominanti. Il dissidio è inevitabile, e ciò spiega perché, finora, i diritti umani, sia pur proclamati in linea di principio, siano spesso negati nei fatti e perché, perfino nei paesi cosiddetti democratici, continua a prevalere una logica funzionale agli interessi dei gruppi più potenti. I fatti sono lì a dimostrare che “gli enti che dovrebbero assicurare il rispetto dei diritti umani sono gli Stati sovrani, e cioè proprio quelli che invece più o meno quotidianamente li calpestano” (CASSESE 2005: 232). Abbiamo detto che gli Stati, ossia i detentori del potere politico, si comportano così perché devono salvaguardare i privilegi delle classi dominanti. Adesso sappiamo che, per poter far ciò impunemente, essi hanno dovuto fare ricorso al diritto, un’ideologia creata ad arte affinché potesse sostenere l’innaturale e instabile edificio della società duale, autoritaria, piramidale e paternalistica.
Il diritto delle Democrazie rappresentative ci induce a credere che i membri della plebe non sono in grado di assumersi responsabilità e, come bambini, devono essere posti sotto la tutela di una guida, di un tutore, di un rappresentante, che decida per loro. Ci insegna che la virtù somma del cittadino consiste nell’obbedienza alla legge costituita e nel conformismo, mentre indicano come sommo male le pretese di libertà e di autonomia di giudizio da parte dei singoli individui. Viene in mente l’Inquisitore di Dostoeskij, il quale nega la capacità da parte dell’uomo di perseguire la propria felicità in modo responsabile, e afferma la necessità di un potere paterno e dispotico, i cui sudditi, come figli minorenni, aspettano che sia il capo ad indicare loro la via per essere felici. Per l’Inquisitore gli uomini temono la libertà, perché sono incapaci di gestirla, e preferiscono inchinarsi obbedienti davanti a qualcuno, come il monarca sovrano, o a qualcosa, come la legge.
Secondo Noam Chomsky, invece, è necessario che la gente acquisti coscienza della profonda ingiustizia che turba il mondo, se si vogliono cambiare le cose. “Il primo passo consiste nel penetrare nelle nubi dell’inganno e della distorsione e apprendere la verità sul mondo, per poi organizzarsi e agire per cambiarlo” (CHOMSKY 1997: 164). Il secondo passo è di non smettere di lottare per i diritti umani, senza aspettarci regali dall’alto, ma adoperandoci dal basso, tutti noi, ciascuno secondo le sue possibilità. Secondo Cassese, “quella «lotta» non può essere intrapresa che da tutti noi. È necessario un grande esercito, senza però generali, strateghi o condottieri. Un esercito composto da un popolo minuto, da persone che intervengano in mille modi, a più livelli, in una paziente e oscura azione quotidiana” (2005: 236-7).
Non credo che sia difficile reperire un consistente numero di persone disposte ad ammettere la necessità di un profondo cambiamento della nostra società. Il problema è «come?». Infatti, per realizzare un profondo cambiamento di un sistema politico, occorre creare un nuovo modello. Ora, personalmente, sono convinto che qualsiasi modello creato dal basso avrà gli stessi inconvenienti dei modelli già noti, ovverosia, sarà concepito a beneficio di una minoranza. Il nuovo modello politico dovrà, dunque, essere creato dal basso, dovrà essere opera di cittadini comuni e, io credo, quando dei cittadini comuni avranno dimostrato di essere capaci di elaborare una teoria politica, ciò vorrà dire che sono maturi i tempi per la Democrazia diretta (cf. blog su Democrazia).
Dalla forza origina il Diritto e lo Stato
15 anni fa
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