lunedì 10 agosto 2009

7. Il diritto nell’età del bronzo: i primi Codici

Alcuni sovrani tentarono di mettere per iscritto le norme consuetudinarie, interpretandole alla luce della propria volontà. Nascevano così i primi Codici.
I primi Codici di cui abbiamo conoscenza apparvero circa 4 Kyr fa e sono passati alla storia come opera di grandi condottieri, che verosimilmente intendevano far sapere a tutti che il loro regno, per tanti anni tormentato da guerre, ora aveva un capo, un grande capo, tanto forte da poter garantire la pace e tanto saggio da meritare i favori di un dio e incarnare la sua volontà. È in quest’ottica che si può inquadrare la consuetudine, da parte di alcuni re, di far incidere il Codice su tavole di legno o lastre di pietra (stele), che poi venivano disposte nei punti più strategici del regno, accuratamente scelti dai funzionari in base alla loro frequentazione e alla loro visibilità, la maggior parte delle quali è andata perduta. Tra le stele ritrovate, la più famosa è certamente quella che riporta il Codice del re babilonese Hammurabi risalente al 374 BP. Il Codice di Hammurabi non costituisce il primo esempio di leggi scritte. Anche i Sumeri, infatti, avevano avuto leggi scritte. Basti ricordare i Codice di Ur-numma (ca. 4100 BP), di Lipit-Ishtar (ca. 2050 BP) e di Eshnunna (3900-3800 BP). Sono i primi Codici di una lunga serie: Codici ittiti (3400-3300 BP), Codici assiri (3400-3100), e via dicendo.
Il fatto che nessun Codice sia stato trovato in Egitto non ci deve sorprendere, se pensiamo alla natura divina che gli egizi attribuirono al faraone: in quanto dio vivente, la volontà del faraone era il diritto. Fu forse per preservare le prerogative divine del faraone che gli egizi rifiutarono di ingabbiare in un testo scritto la sovrana volontà del loro dio vivente. In Mesopotamia, invece, dove al re era attribuita una natura umana, i Codici di leggi divennero una consuetudine e, infatti, come abbiamo visto, i Neobabilonesi, gli Assiri, gli Ittiti, gli Ebrei, e altre popolazioni del Vicino Oriente Antico ebbero leggi scritte. Per comprendere da dove siano originate queste leggi, che cosa stabilivano, da chi siano state promulgate e a quale scopo, ritorniamo ad Hammurabi.
Hammurabi è uno dei tanti piccoli re che, nel XVIII sec., affollano la Mesopotamia e che, grazie a una coraggiosa e fortunata politica espansionistica, vuole realizzare un adeguato apparato amministrativo e consolidare il suo potere. A tale scopo, per prima cosa sostituisce i vecchi signori locali con governatori da lui nominati, i quali altri non sono che i capiclan che lo hanno coadiuvato nell’impresa di conquista, da cui pretende un giuramento di obbedienza e sottomissione: tutti devono far capo a lui, sommo re, prescelto dal più grande degli dèi per garantire sicurezza e prosperità ai suoi sudditi. Poi dà ordine che si scolpiscano su una stele di basalto i princìpi di giustizia eterna, che il dio stesso ha voluto comunicargli perché lui li faccia osservare e affinché il suo popolo sia felice. Ma che cosa rappresentano quei segni scolpiti sulla stele? Nella sommità è scolpita l’effigie del sovrano che riceve le leggi dal dio Enlil. Come dire: Hammurabi è stato prescelto da quel dio allo scopo di proclamare la giustizia nel suo paese. In questo messaggio è implicito l’obiettivo di indurre la gente a credere che quanti rispetteranno le leggi scolpite sulla stele saranno ritenuti virtuosi agli occhi del re e del dio e meriteranno ogni bene, mentre coloro che le infrangeranno saranno ritenuti malvagi e meriteranno una malasorte commisurata alla gravità e alla frequenza delle infrazioni.
Sotto un certo aspetto, il Codice potrebbe essere interpretato come uno strumento di democrazia, lo strumento attraverso il quale il sovrano affida ai propri funzionari il compito di mettere in forma scritta le leggi, affinché siano uguali per tutti. Ora, viene spontanea la domanda: dal momento che ai tempi di Hammurabi la stragrande maggioranza della gente è analfabeta, chi potrebbe controllare l’esatta applicazione della legge, se non proprio coloro ai quali è stato affidato il compito di amministrarla? Perché allora scolpire in modo così solenne delle leggi, il cui rispetto dipende unicamente dalla buona volontà dei signori locali? Insomma, a chi è indirizzato il messaggio racchiuso nella stele? E con quale intento? Una possibile spiegazione è che, in realtà, i Codici scolpiti su stele non costituiscono una conquista democratica, ma un gesto di propaganda politica. Essi simboleggiano il potere assoluto del re e la sua legittimazione divina a governare. Attraverso la stele, Hammurabi annuncia a tutte le popolazioni sottomesse che egli eserciterà il comando conferitogli dal dio e amministrerà la giustizia nel modo migliore possibile, e ciò è garantito dalla stessa divinità. Il significato profondo della stele, che può essere colto da ogni suddito e, ancor più, da ogni possibile pretendente al potere è di questo tenore: «Attenzione! Sappiate tutti che qui comanda Hammurabi per delega divina e chiunque rifiuti di sottomettersi sappia che dovrà fare i conti con la giusta e implacabile ira del grande re e del suo dio». È un’affermazione di potere, con la relativa minaccia rivolta a quanti non intendessero sottomettersi.
In quanto originate dal dio, le leggi scolpite sulla roccia (ai tempi di Hammurabi la scrittura è considerata un dono divino) devono rappresentare soprattutto un simbolo sacro di potere (così come lo saranno gli archi di trionfo e le colonne celebrative tanto in voga ai tempi dei romani), e sono indirizzate prevalentemente ai capiclan che potrebbero insidiare il primato del re, ma anche al popolo intero, che è chiamato a prendere atto dell’investitura divina del sovrano. Ai primi, Hammurabi annuncia: «Qui comando io, perché sono il migliore, il più forte, il prediletto del dio. Guai ai ribelli». Alle masse di sudditi, agli uomini in arme, agli artigiani e ai contadini, le stesse leggi scolpite vogliono essere un messaggio rassicurante, del tipo: «Tutto è sotto controllo, tutto è governato da un grande dio e da un grande re». Il testo delle leggi dev’essere ritenuto secondario rispetto alla stele in se stessa e alla sua simbologia profonda. Più che un’affermazione del diritto, si tratta, come si può ben vedere, di una conferma del tradizionale principio di forza, sancito da una tradizione secolare e ormai entrato a far parte della «consuetudine», ossia di quel particolare costume, spontaneamente affermatosi, secondo il quale al condottiero vittorioso è legittimato ad imporre la sua legge. Il diritto emana dal re ed è garantito da un dio. Questo è il principio che sta alla base dei primi Codici, che forse nessuno applicò mai in modo sistematico (la faida e l’ordalia continueranno, infatti, a sussistere), ma nei quali dobbiamo vedere un precedente assai importante per il successivo sviluppo del diritto.
Considerazioni analoghe si possono applicare anche alle «Tavole della legge» mosaiche. In entrambi i casi, questi simboli grafici, che risultano del tutto insignificanti per una popolazione analfabeta, hanno invece una profonda importanza per quello che rappresentano. In questi segni sacri, che solo i sacerdoti o i profeti sanno decifrare, sono racchiuse le verità che contano, le spiegazioni degli accadimenti storici, l’interpretazione della stessa vita e del mistero della morte. I sacerdoti e i profeti ebrei svolgono lo stesso compito dei funzionari di Hammurabi, con la sola differenza che in quel caso l’autore dei segni è il re, sia pure ispirato da un dio, mentre le tavole di Mosè sono scolpite direttamente dalla mano di Dio. Nel primo caso i funzionari fanno capo al re e questi si appella, in ultima istanza, a un dio; nel secondo caso, il sacerdote o il profeta traducono direttamente la parola di Jahve e non riconoscono alcun’altra autorità al di fuori del dio stesso. Anche quando, nel corso dei secoli, le leggi delle Tavole verranno trascritte nel rotolo della Torah, si continuerà a dire che essi sono opera divina. Ma quegli scritti, in realtà sono opera umana e, più precisamente, opera di intellettuali graditi alla classe dominante. E, infatti, se guardiamo alla storia della redazione dei testi biblici, troviamo appunto che essa è il prodotto di diversi interventi umani, operati dai gruppi dominanti del momento e avvenuti in luoghi e periodi diversi. Anche la Bibbia, dunque, può essere vista come strumento del potere sacerdotale allo stesso modo in cui la stele costituisce uno strumento del potere di Hammurabi.
Se adesso andiamo a leggere il contenuto testuale di questi antichi codici, sveliamo la concezione che avevano del diritto gli uomini dell’Età del bronzo. Ebbene, i Codici sumeri, assiri, babilonesi, ebraici e tutti gli altri, sostanzialmente si limitano a consacrare usi e costumi già operanti da secoli presso i clan dominanti, più o meno corroborati dall’apporto dei riformatori di successo. In ogni caso essi costituiscono la fotografia del modo in cui gli uomini di un determinato luogo concepiscono il diritto per ciò che concerne, ad esempio, la spartizione del bottino di guerra, la schiavizzazione dei vinti e la nuova piramide sociale che ne consegue.
Tra le prime norme del diritto vanno ricordate quelle che mirano a salvaguardare la sicurezza della persona e sono sostanzialmente di tre tipi. Il primo corrisponde alla cosiddetta legge del taglione: “Piaga per piaga, occhio per occhio, dente per dente, quanto ha fatto agli altri, tanto sia fatto a lui” (Lv 24,19). Stabilendo che l’autore del male debba essere ripagato con lo stesso male, la legge del taglione deve apparire, in tutta l’età del bronzo, come la massima espressione di giustizia. La seconda norma di giustizia è rappresentata dalla legge del contrappasso, che prevede la condanna del colpevole ad una pena ritenuta «proporzionata» alla colpa (le percosse al padre vengono punite col taglio della mano, la sodomia con l’evirazione, l’omicidio con la pena di morte, e via dicendo). La terza norma di giustizia è quella del risarcimento in natura o in denaro in rapporto al crimine commesso. “Se un uomo taglia il piede di un altro, sia condannato a pagare 10 sicli d’argento” (SAPORETTI 1998: 118). Le leggi del taglione e del contrappasso sono predominanti nel codice di Hammurabi, nella legge assira e in quella ebraica, mentre il principio del risarcimento prevale nel diritto sumerico e ittita. Non sono comunque queste le uniche forme di giustizia praticate nell’antichità: vanno anche ricordati il bando dal paese, la faida, il lavoro forzato per il re e l’ordalia, su cui non ritengo di dovermi soffermare in questa sede.
Accanto alle leggi che tutelano la sicurezza della persona, i codici antichi contengono anche altre norme, come quelle che tutelano il diritto ad essere ricompensati in rapporto al lavoro svolto, per esempio, “Il compenso mensile per la prestazione di un lavoratore è di 1 siclo d’argento, più 1 PI [PI = circa 50 litri] di orzo per il suo vitto” (SAPORETTI 1998: 148); il diritto a non essere defraudati dei propri beni (condanna del furto e risarcimento dei danni); il diritto in difesa dell’unità familiare (condanna dell’adulterio e della ribellione nei confronti dei genitori) e a tutela della famiglia, in quanto unica fonte di perpetuazione del genere umano e della forza lavoro: “Se una donna rimane vedova sia presa in moglie da un fratello del marito, e se poi anche i fratelli del marito muoiono, dal suocero [...]” (SAPORETTI 1998: 276); una vedova madre di figli che si sposi, dovrà impegnarsi insieme al nuovo marito a prendersi cura dei figli e ad amministrare il patrimonio del primo marito; e via dicendo.
Ci sono poi leggi in difesa della proprietà privata, che però non si riferisce mai a singoli individui, né ha il significato moderno di diritto pieno ed esclusivo su un bene. Tanto in Egitto quanto in Mesopotamia, l’istituto della proprietà privata si riferisce propriamente ad un dio: in teoria, ogni regno appartiene al suo dio, il quale, tuttavia, lo affida ad un personaggio di propria fiducia, generalmente il re. Non molto diversa è la concezione degli antichi ebrei. Anche per loro il proprietario della terra è Dio: “Un terreno non potrà essere venduto in modo definitivo, perché la terra appartiene a me, il Signore, e voi sarete come stranieri o emigrati che abitano nel mio paese” (Lv 25,23). Praticamente, il proprietario del regno è il re, il quale lo suddivide fra i suoi parenti e sostenitori, e questi, a loro volta, fanno altrettanto, così che, alla fine, il regno risulta suddiviso in tanti “feudi”, dove ai sudditi che si sobbarcano il lavoro bruto, viene concesso il diritto di trattenere la parte necessaria alla propria sussistenza, ma, nello stesso tempo, contraggono il dovere di versare l’eccedenza nelle casse dei loro signori e del re.
Queste leggi costituiscono certo un passo avanti nella storia del diritto, anche se si deve rilevare il fatto che esse non sono uguali per tutti, ma cambiano a seconda della classe sociale di appartenenza. Ai tempi di Hammurabi, per esempio, non tutti i sudditi hanno pari valore e si distingue tra uomo e donna, tra adulto e bambino, tra uomini liberi, semiliberi (i cosiddetti muskenum) e schiavi. Così, il codice prevede che se un chirurgo salva la vita di un uomo libero ha diritto ad un compenso di 10 sicli d’argento, se salva la vita di un muskenum, il compenso a lui spettante scende a 5 sicli, se salva la vita ad uno schiavo gli spettava una ricompensa di due sicli d’argento. Evidentemente la vita non ha lo stesso valore per tutti. Non molto dissimile è la concezione degli ebrei, che distinguono il capo famiglia dagli altri membri adulti di sesso maschile e gli uomini dalle donne.
Se il re può vedere nel rispetto delle leggi una garanzia di stabilità del proprio potere, se gli strati più bassi della popolazione possono riporvi la speranza di tutelare le proprie vite e se gli strati intermedi possono scorgervi il vantaggio della difesa dei propri averi, non è affatto detto che tutte le classi sociali abbiano ragioni per accettare di buon grado quelle leggi e osservarle senza condizioni. In particolare, a parte il re, tutti gli altri, tanto i poveri, che non hanno nulla da perdere, quanto i ricchi, che aspirano ad un ruolo di maggior prestigio e potere, possono avere qualche motivo per non essere soddisfatti dello status quo e sperare in un cambiamento, e ciò è causa di instabilità sociale. Perciò, il più delle volte, le conquiste militari danno luogo a ordini sociali effimeri e, in poche società, la pace imposta dal re e dalle sue leggi risulta essere un bene condiviso da tutti e una condizione stabile di governo. Solo in condizioni particolarmente fortunate un sistema sociale riesce a mantenere un equilibrio duraturo nel tempo, realizzare una coscienza di popolo, una unità culturale, religiosa e linguistica, una civiltà in grado di autoriconoscersi, autovalutarsi e confrontarsi positivamente con altre civiltà e culture, ad esempio, gli egizi, i babilonesi, gli assiri e gli ebrei.
Le classi sociali svantaggiate sono formate sostanzialmente da due categorie di persone: dagli schiavi, che di solito sono stranieri catturati in battaglia, e da tutti coloro che sono costretti a vendersi sotto il peso di debiti che non riescono a pagare. Si pensi alla legge: “Se un uomo ha trascurato di rinforzare l’argine del suo terreno per cui si sono verificate delle falle con conseguenti inondazioni, deve pagare una quantità di orzo pari a quella di cui ha causato la perdita. Se non è in grado di risarcire i danni sia venduto con tutti i suoi beni, e il ricavato sia diviso tra i proprietari dei campi il cui raccolto è andato distrutto” (SAPORETTI 1998: 168). Ecco un esempio di come si può diventare schiavi per debiti. Per costoro i singoli legislatori esprimono pareri diversi. A differenza del codice di Hammurabi, per esempio, nella piramide sociale descritta nella Bibbia non si fa menzione della categoria degli schiavi di guerra, sostanzialmente perché la cultura tribale ebraica ignora la guerra di conquista, mentre conserva le altre classi sociali e la schiavitù per debiti, che poi il legislatore sacro si affretterà a mitigare: un ebreo non potrà essere tenuto schiavo di un altro ebreo per più di sette anni.
Al di là degli specifici contenuti dei singoli diritti, quello che conta di sottolineare è che questi diritti non provengono mai dal basso, o dal popolo, ma dall’alto, dal re o da un dio, o da entrambi e acquistano così un carattere sacro, assumono un valore assoluto e immutabile. Il risultato concreto della promulgazione di leggi scritte è, dunque, quello di fissare delle regole chiare al fine di garantire un’amministrazione efficiente e la coesione sociale anche in un grande Stato. Ciò accontenta tanto il re, da cui la legge emana, quanto i sudditi, che possono contare su qualche punto di riferimento chiaro. Il tutto finisce col realizzare una coscienza e una cultura di popolo, in grado di autoriconoscersi, autovalutarsi e confrontarsi con altre culture.

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