lunedì 10 agosto 2009

28. I doveri

E i doveri? Un essere umano che viva in società in modo responsabile non può esimersi dall’assumersi dei doveri, pena la perdita della sua dignità. Il principale dovere di un individuo è quello di mettere a frutto le proprie potenzialità al massimo grado e impiegare il proprio talento a vantaggio di se stesso e dei propri simili. Come scriveva Louis Blanc, “da ciascuno secondo le sue facoltà: qui sta il dovere”. Mettere ciascuno nelle migliori condizioni possibili perché possa esprimere i talenti di cui è naturalmente dotato (questi sono i diritti) e poi esigere che quei talenti vengano messi a frutto per il bene comune (questi sono i doveri). Il diritto è la sommatoria dei diritti e dei doveri.

27. I diritti negati

Il problema è che a garantire la soddisfazione dei diritti è quello stesso Stato che, fondandosi su rapporti di forza, deve farsi garante dei privilegi guadagnati sul campo dai gruppi dominanti. Il dissidio è inevitabile, e ciò spiega perché, finora, i diritti umani, sia pur proclamati in linea di principio, siano spesso negati nei fatti e perché, perfino nei paesi cosiddetti democratici, continua a prevalere una logica funzionale agli interessi dei gruppi più potenti. I fatti sono lì a dimostrare che “gli enti che dovrebbero assicurare il rispetto dei diritti umani sono gli Stati sovrani, e cioè proprio quelli che invece più o meno quotidianamente li calpestano” (CASSESE 2005: 232). Abbiamo detto che gli Stati, ossia i detentori del potere politico, si comportano così perché devono salvaguardare i privilegi delle classi dominanti. Adesso sappiamo che, per poter far ciò impunemente, essi hanno dovuto fare ricorso al diritto, un’ideologia creata ad arte affinché potesse sostenere l’innaturale e instabile edificio della società duale, autoritaria, piramidale e paternalistica.
Il diritto delle Democrazie rappresentative ci induce a credere che i membri della plebe non sono in grado di assumersi responsabilità e, come bambini, devono essere posti sotto la tutela di una guida, di un tutore, di un rappresentante, che decida per loro. Ci insegna che la virtù somma del cittadino consiste nell’obbedienza alla legge costituita e nel conformismo, mentre indicano come sommo male le pretese di libertà e di autonomia di giudizio da parte dei singoli individui. Viene in mente l’Inquisitore di Dostoeskij, il quale nega la capacità da parte dell’uomo di perseguire la propria felicità in modo responsabile, e afferma la necessità di un potere paterno e dispotico, i cui sudditi, come figli minorenni, aspettano che sia il capo ad indicare loro la via per essere felici. Per l’Inquisitore gli uomini temono la libertà, perché sono incapaci di gestirla, e preferiscono inchinarsi obbedienti davanti a qualcuno, come il monarca sovrano, o a qualcosa, come la legge.
Secondo Noam Chomsky, invece, è necessario che la gente acquisti coscienza della profonda ingiustizia che turba il mondo, se si vogliono cambiare le cose. “Il primo passo consiste nel penetrare nelle nubi dell’inganno e della distorsione e apprendere la verità sul mondo, per poi organizzarsi e agire per cambiarlo” (CHOMSKY 1997: 164). Il secondo passo è di non smettere di lottare per i diritti umani, senza aspettarci regali dall’alto, ma adoperandoci dal basso, tutti noi, ciascuno secondo le sue possibilità. Secondo Cassese, “quella «lotta» non può essere intrapresa che da tutti noi. È necessario un grande esercito, senza però generali, strateghi o condottieri. Un esercito composto da un popolo minuto, da persone che intervengano in mille modi, a più livelli, in una paziente e oscura azione quotidiana” (2005: 236-7).
Non credo che sia difficile reperire un consistente numero di persone disposte ad ammettere la necessità di un profondo cambiamento della nostra società. Il problema è «come?». Infatti, per realizzare un profondo cambiamento di un sistema politico, occorre creare un nuovo modello. Ora, personalmente, sono convinto che qualsiasi modello creato dal basso avrà gli stessi inconvenienti dei modelli già noti, ovverosia, sarà concepito a beneficio di una minoranza. Il nuovo modello politico dovrà, dunque, essere creato dal basso, dovrà essere opera di cittadini comuni e, io credo, quando dei cittadini comuni avranno dimostrato di essere capaci di elaborare una teoria politica, ciò vorrà dire che sono maturi i tempi per la Democrazia diretta (cf. blog su Democrazia).

26. I diritti

Se «il diritto» si riferisce alla società organizzata e alle pubbliche istituzioni, «i diritti» riguardano l’individuo e sono legati ai suoi bisogni. T.H. Marshall (1964) distingue tre tipi di diritti fondamentali (da FLORA 1991: 502).
1. Diritti civili: le libertà individuali (di parola, di pensiero, di fede, di scambiare merci), il diritto di proprietà e il diritto alla giustizia.
2. Diritti politici: ossia la facoltà concessa a tutti di partecipare (direttamente o indirettamente) all’esercizio del potere politico.
3. Diritti sociali: il diritto ai beni primari (casa e cibo) e alla famiglia, insieme ad altri diritti, come quello all’alfabetizzazione, che consentono di condurre un’esistenza secondo uno standard considerato dignitoso.
A mio giudizio, in ultima istanza, i diritti dell’uomo sono i bisogni dell’uomo e non ci sarebbero diritti se non ci fossero bisogni. In natura, i bisogni vengono soddisfatti prevalentemente secondo il principio gerarchico e la legge del più forte. Non esistono diritti naturali, ma solo diritti culturali. “In realtà gli uomini non nascono né liberi né eguali. Che gli uomini nascano liberi ed eguali è un’esigenza della ragione, non è una constatazione di fatto né un dato storico” (BOBBIO 1990: 127). In altri termini, “i diritti cosiddetti umani sono il prodotto non della natura ma della civiltà umana” (BOBBIO 1990: 26). Nemmeno la famiglia è un luogo di diritti. Essa è un gruppo organizzato gerarchicamente e al suo interno i membri non nascono “né liberi, perché sottoposti all’autorità paterna, né eguali, perché il rapporto tra padre e figli è un rapporto da superiore a inferiore” (BOBBIO 1990: 126-7). La famiglia è un luogo di impulsi emotivi, di solidarietà affettiva e di pulsioni biologiche.
Secondo Archibugi, “I diritti umani assumono l’individuo come punto di riferimento, e sono volti a garantire ai singoli le condizioni minime necessarie per conseguire una vita specificamente umana” (1998: 26). Ora, affermare che solo l’individuo è portatore di diritti equivale a riconoscere che lui, e solo lui, è portatore di bisogni. E così è: solo gli individui mangiano, dormono, si riproducono, provano emozioni, esprimono sentimenti, soffrono e gioiscono, piangono ed esultano, hanno un progetto di vita, muoiono. Come ha scritto Louis Blanc nel 1849, “a ciascuno secondo i suoi bisogni, qui sta il diritto”. Infatti, è bene ripeterlo, se non avessimo bisogni, non avrebbe alcun senso parlare di diritti. Ora, il nostro bisogno fondamentale è quello di portare a termine liberamente il nostro progetto di vita; ed è ciò che conferisce dignità alla nostra esistenza. Ebbene, potremmo dire la stessa cosa dei nostri diritti fondamentali: anch’essi servono a consentirci di portare a termine liberamente il nostro progetto di vita.
Chiarito questo concetto, siamo ora in grado di rispondere alla domanda se vengano prima i diritti o i doveri. Ebbene, i diritti sono antecedenti ai doveri, perché i bisogni sono antecedenti ai doveri. Nessun individuo, infatti, può assolvere ad alcun dovere se «prima» non abbia soddisfatto i suoi bisogni primari. Ma c’è anche un’altra ragione che spiega la priorità dei diritti sui doveri, ed è la seguente. Nessun bambino chiede di nascere e, nel momento in cui la coppia decide di mettere al mondo un figlio, implicitamente gli riconosce il diritto alla vita e ad un’esistenza degna di un uomo. Ora, questo riconoscimento è unilaterale e prescinde dalla conoscenza dell’opinione del bambino. Ebbene, questa decisione unilaterale è gravata di una responsabilità di cui si fa carico la famiglia in prima battuta e, in seconda battuta, lo Stato nel momento in cui mostra di accettare quel bambino registrandolo fra i propri cittadini. Famiglia e Stato contraggono doveri verso il nuovo venuto, che, da parte sua, non si è ancora impegnato in alcun modo: la sua volontà potrà essere espressa solo in un secondo tempo. Il bambino nasce, dunque, come soggetto di diritti, mentre famiglia e Stato sono soggetti di doveri.
I diritti della persona costituiscono dei valori assoluti, non negoziabili, almeno per due ragioni. La prima ragione è legata al fatto che ogni individuo è potenzialmente capace di discernimento morale, di tracciare un proprio progetto di vita e di stabilire i termini della propria felicità, in modo autonomo e non necessariamente coincidente con le aspettative di altri. La seconda ragione è che non c’è un modo certo per stabilire un ordine gerarchico fra i diversi progetti di vita. Da questi assunti dipendono i diritti fondamentali della persona alla vita, all’uguaglianza e alla libertà. Il diritto alla vita equivale a riconoscere che ciascuno è padrone del proprio progetto esistenziale, ovvero sovrano di se stesso. Il diritto all’uguaglianza stabilisce che a ciascuno dev’essere riconosciuta una pari opportunità di esprimere il proprio talento. Il diritto alla libertà implica che ciascuno debba essere lasciato libero di perseguire a proprio modo la felicità, con l’unico limite di non limitare la libertà di altri. Si tratta, in fondo di due forme di libertà: una “libertà da” (da impedimenti, da oppressione, da indebite ingerenze, da violenza) e una “libertà di” (di essere messo in condizioni di pensare responsabilmente con la propria testa). Queste sono le basi dei diritti fondamentali dell’individuo.
È inutile cercare i diritti nell’antichità. Fino all’età moderna, infatti, non c’è stata alcuna proclamazione teorica e nessuna applicazione pratica di diritti della persona. Prendiamo, ad esempio il diritto di uguaglianza. Benché il mito biblico della creazione lasci intendere che gli uomini sono tutti figli di Dio (e, dunque, fratelli), tuttavia, gli ebrei, ritenendosi “popolo prediletto”, hanno visto se stessi come una compagine sociale diversa e migliore rispetto ad ogni altra. Anche per gli ateniesi del V-IV secolo, pur proclamando l’uguaglianza dei cittadini, si sono ritenuti superiori a tutti gli altri uomini, che hanno chiamano barbari. Tanto gli ebrei quanto gli ateniesi hanno creduto nella propria eccellenza e quindi non hanno professato il principio di uguaglianza universale fra gli uomini. Sono stati i sofisti a parlare per primi di uguaglianza del genere umano, seguiti dagli stoici, i quali hanno introdotto il concetto di «legge naturale», valida per tutti, seguiti dai giusnaturalisti. Oggi, quando parliamo di uguaglianza democratica, non intendiamo l’uguaglianza dei meriti (quella bisogna sudarsela) quanto l’uguaglianza dei diritti fondamentali. Intendiamo dire che tutti gli individui nascono con gli stessi diritti e devono disporre di pari opportunità per poterli esercitare.
Il diritto alla libertà ha un significato molto ampio: vuol dire libertà di azione, libertà di parola, libertà di pensiero, libertà di informazione, libertà di dare un senso alla propria vita, e molto altro ancora, da cui deriva il diritto all’istruzione, che viene riconosciuto in tutti i paesi democratici e tradotto nella cosiddetta scuola dell’obbligo, il cui scopo ultimo dovrebbe essere quello di formare soggetti pensanti e autonomi. Anche il diritto alla libertà della persona è da intendersi come una conquista dell’età moderna. Per Kant la libertà è l’unico diritto innato “spettante ad ogni uomo in forza della sua umanità” (La metafisica dei costumi, B, VI (controllare). In realtà, abbiamo già notato che non esistono diritti innati, ma solo riconoscimenti di natura culturale di talune prerogative della persona. Kant fa derivare la libertà umana dall’autonomia della ragione e ritiene che si possa parlare di libertà solo quando la ragione obbedisca unicamente a se stessa. Si tratta di un atteggiamento di fiducia, senza la quale il diritto alla libertà resterebbe privo di fondamento pratico. Io invece ho sostenuto che il diritto alla libertà scaturisce dal fatto che non c’è un modo oggettivo per stabilire che il progetto di vita di uno sia migliore di quello di un altro, ed anche dal fatto che ciascun individuo è potenzialmente sovrano nella propria persona e potenzialmente capace di decidere della propria vita e del proprio destino, come chiunque altro. Dico «potenzialmente» nel senso che questa capacità non va intesa alla stessa stregua di un istinto innato, ma come il risultato di un apprendimento.
In uno Stato di diritto, il diritto alla libertà deve associarsi ad una logica di responsabilità, dal momento che solo un comportamento responsabile, ossia quello di cui siamo chiamati a rispondere di fronte alla nostra coscienza e di fronte agli altri, caratterizza la persona civile. La libertà, dunque, è un atto di doverosa fiducia nei confronti dell’individuo umano e, nello stesso tempo, un attributo tipicamente umano, che non può essere disgiunto dalla responsabilità. È come se ogni individuo dicesse: io credo che, se opportunamente educato, ogni essere umano sia in grado di servirsi delle proprie facoltà in modo responsabile, ossia in modo politico, e qui entriamo nel merito della DD.
Ora, nel momento in cui, la famiglia e lo Stato si assumono unilateralmente la responsabilità della chiamata al mondo degli esseri umani, essi si impegnano a garantire i diritti fondamentali di quegli esseri umani, e lo fanno in modo incondizionato, a prescindere cioè dal tipo di volontà che i singoli individui vorranno esprimere una volta divenuti adulti. E questo significa, a mio giudizio, che uno Stato civile dovrebbe prevedere un Reddito Minimo Garantito (RMG) per tutti i propri cittadini (cf. blog su democrazia).

25. I grandi sistemi giuridici

Il diritto è stato interpretato in molti modi diversi a seconda del luogo e del tempo, tanto da potere affermare che ci sono tanti diritti quanti gruppi sociali autonomi. Nei tempi in cui tutto il pianeta era abitato da popolazioni tribali, ogni tribù praticava una propria idea di diritto. Poi sono venuti i grandi regni e i grandi imperi, e le tribù più potenti hanno imposto la propria visione del diritto sulle altre. Sono venute anche le grandi religioni e anch’esse hanno imposto il proprio punto di vista. Così, lungo il corso della storia, le grandi civiltà hanno potuto esercitare la loro influenza su aree molto estese e, anche quando esse sono tramontate, una parte della loro cultura è sopravvissuta attraverso ciò che è rimasto (resti archeologici, lingua, tradizioni, costumi, tecnica, religione, opere scientifiche o letterarie).
È possibile raggruppare le innumerevoli interpretazioni locali del diritto esistenti in quattro grandi sistemi giuridici: il sistema dell’Europa occidentale, detto civil law, che si rifa in varia misura all’antico diritto romano; il sistema di common law (Paesi anglosassoni e India); il sistema marxista (Russia, Paesi dell’Est europeo e Cina); il sistema islamico, il quale applica i princìpi del Corano e prevede l’intervento dello Stato solo laddove il Corano tace.
I- Sistema romanista o di Civil Law. Appartengono a questo sistema gli ordinamenti giuridici che s’ispirano al diritto romano, un diritto essenzialmente pratico, consuetudinario e casistico. A partire da Ulpiano si è ritenuto che il diritto origini dall’alto (Imperatore, Re) o dall’esterno (Dio, Natura). Poi, a partire dal XVIII secolo, si è cominciato a credere che il diritto debba originare dal Parlamento, che riceve mandato dal popolo. Su questi presupposti, sono stati promulgati, da parte di molti Stati, come la Francia, l’Italia e la Germania (XIX sec.), dei Codici civili, che rappresentano la “monopolizzazione della posizione giuridica da parte dello Stato” e sanciscono la “completa subordinazione del giurista e del giudice alle leggi poste dal potere politico” (BOBBIO 1994: 371).
II- Sistema di Common Law. Per Common Law (diritto comune) s’intende un particolare sistema giuridico, che è sorto in Inghilterra e da qui si è sviluppato nelle diverse aree del mondo dove è stata avvertita l’influenza inglese. È un diritto basato non su norme ben codificate, come quelle del diritto romano, ma sulle sentenze pronunciate dai singoli giudici nel corso di una storia secolare. Ebbene, queste sentenze costituiscono i «precedenti» ai quali si ispireranno gli altri giudici, una sorta di legge non scritta, creata dalla consuetudine. Fra le particolarità della common law va ricordato il fatto che i giudici sono generalmente prescelti non fra le personalità del mondo accademico, ma fra le persone pratiche, che non si fa distinzione fra diritto pubblico e privato e che non esistono Codici. A differenza che in Gran Bretagna, il diritto indiano si ispira a princìpi tratti dalla religione induista.
III- Sistema socialista. Secondo gli ordinamenti giuridici improntati dal pensiero marxista, i diritti dei cittadini costituiscono il prodotto delle differenti situazioni storiche e dei diversi equilibri di potere. Il diritto tradizionale cinese consta di un diritto privato, di tipo pratico e consuetudinario, e di un diritto pubblico volto a sostenere il potere politico, mentre le garanzie a favore dei sudditi sono evanescenti. La rivoluzione di Mao Zedong ha introdotto elementi del diritto sovietico.
IV- Sistema islamico. Nell’Islam la scienza del diritto è una parte della teologia e la principale fonte del diritto è il Corano. “Allo Stato è concesso di dettar norme a sua discrezione solo negli spazi lasciati liberi dalla normativa coranica” (BOGNETTI 1998: 46). Una seconda fonte, dopo il Corano, è la «sunna», ossia la tradizione degli atti e delle parole del profeta. Una terza fonte è costituita dalle idee condivise della comunità su alcune questioni particolari.
Fra i sistemi giuridici minori, voglio ricordare solo quelli dell’Africa sub sahariana, dove è ancora presente il diritto di tipo tribale che varia molto da un’etnia all’altra. Il diritto moderno è invece influenzato dai paesi colonizzatori.

24. Il Costituzionalismo

Queste due forme di giustizia trovano un luogo di sintesi nelle Costituzioni e nelle Dichiarazioni summenzionate, che sono chiamate a regolare i rapporti interpersonali e fra cittadini e lo Stato. Sia le Costituzioni che le Dichiarazioni individuano e descrivono i cosiddetti diritti fondamentali e inalienabili degli individui e dei cittadini, che comprendono le libertà di movimento, di pensiero, di religione, di espressione, di riunione pacifica, di accesso alla giustizia e di uguaglianza di fronte alla legge, ma anche il diritto al lavoro e alla sicurezza sociale, il diritto ad un adeguato tenore di vita, la tutela della salute, il diritto all’istruzione, alla partecipazione politica e alla vita culturale.
Quando si parla di Costituzionalismo, s’intende dire che il governo della legge si debba preferire a quello degli uomini. È un’idea che circola sin dai tempi di Aristotele, che è fondata sulla convinzione che le leggi, a differenza degli uomini, non hanno passioni né propri interessi da difendere (Pol. 1286a). “Il primato della legge è fondato sul presupposto che i governanti siano per lo più cattivi, nel senso che tendono a usare del potere per i propri fini. Viceversa, il primato dell’uomo è fondato sul presupposto del buon governante, il cui ideale è presso gli antichi il grande legislatore” (BOBBIO 1991: 172). [La preferenza di Bobbio “va al governo delle leggi, non a quello degli uomini” (1991: 193).] Ebbene, il costituzionalismo vuole conciliare i princìpi del giuspositivismo (legge prodotta dagli uomini) con quelli del giusnaturalismo (legge universale, superiore alle leggi particolari), proponendo un diritto giusto e condivisibile da tutti i cittadini di uno Stato. Il problema è che spesso tali princìpi finiscono col ridursi a semplici enunciati teorici.

23. Le principali correnti di pensiero giuridico contemporaneo

La nascita degli Stati Uniti d’America può essere vista come la consacrazione definitiva dei princìpi enunciati dal giusnaturalismo, dal contrattualismo e dall’illuminismo e il primo ingresso nella storia della democrazia rappresentativa. Per la prima volta, la fonte del diritto non è né un dio, né un monarca, e nemmeno la vaga figura del popolo, ma un’assemblea di persone individuali che agiscono in rappresentanza del popolo, ossia il Parlamento. Questa presa di coscienza alimenta una corrente di pensiero, il cosiddetto neogiusnaturalismo, che si sviluppa negli Usa (XX secolo) e che ha in J. Ralws, R. Nozick, J.M. Buchanan, L. Fuller e R.M. Dworkin alcuni dei suoi esponenti di maggiore spicco. Tutti concordano sostanzialmente sui seguenti punti: 1) dev’esserci stata una primordiale condizione naturale di libertà e uguaglianza degli uomini, che trova riscontro nei diritti fondamentali dell’individuo; 2) la società è nata da un patto stipulato all’alba dei tempi fra tutti gli uomini, allo scopo di salvaguardare al meglio i propri diritti fondamentali; 3) la costituzione esprime i termini del contratto originario e sta al di sopra delle leggi particolari e dei governanti. Ma tutto ciò solleva nuovi problemi. Per esempio, se il diritto è opera degli uomini, che si concretizza nei diversi momenti storici, ne consegue che non può esistere un solo diritto, un diritto universale, un diritto giusto, mentre sarebbe più corretto pensare che il diritto rappresenti il prodotto dei rapporti di forza che si stabiliscono tra i diversi gruppi sociali, che competono in difesa dei propri interessi. Se così è, allora i cosiddetti diritti naturali non possono essere considerati oggettivi e assoluti, né si può ipotizzare l’esistenza di una costituzione migliore di un’altra, ma si deve invece intendere che ogni costituzione e ogni legge siano relative e convenzionali e dunque nessuna superiore ad un’altra.
Diverso nella forma, ma non nella sostanza, è il modo di procedere del realismo giuridico, secondo il quale il diritto non si fonda su ideali di giustizia, ma sulla vita vissuta degli uomini, ossia sull’esperienza di vita quotidiana, la quale ci insegna che nessuna norma giuridica diventa operativa se non esiste già nel sentire comune e nel costume della gente. Queste posizioni, insomma, conducono ad una visone storicista e relativista del diritto.
Un’altra grande corrente di pensiero giuridico contemporaneo è il neogiuspositivismo, che si afferma, insieme allo Stato-nazione di stampo liberale, sulle rovine della società feudale pluralistica e annovera, fra i suoi massimi rappresentanti, personaggi del calibro di H. Kelsen, H.L.A. Hart, N. Bobbio e U. Scarpelli. Il giuspositivismo afferma che il diritto è creato dagli uomini e che non esistono altre forme di diritto al di fuori di questo. Kelsen considera il diritto come una scienza: così come la scienza non può fissare i valori morali né stabilire ciò che è giusto, allo stesso modo, nemmeno il diritto può occuparsi di giustizia. La giustizia è, per Kelsen, un problema etico, non giuridico. Il problema giuridico è solo quello di stabilire se una norma è valida, e così, se una persona viene ingiustamente condannata in un regolare processo e nel rispetto delle leggi vigenti, il positivismo giuridico non trova nulla da eccepire.
Ora, una norma è considerata valida quando rispetta la legge e la procedura vigenti, ma tanto la legge quanto la procedura abitualmente sono imposte dal più forte ed è sempre il più forte a stabilire se la legge è stata ben interpretata e la procedura correttamente applicata. Ecco dunque che il positivismo giuridico ripropone, ancora una volta, la legge del più forte. E, infatti, com’è stato notato, il diritto “si fonda sempre in ultima istanza sul diritto del più forte” (GRECO 2000: 262). Il fatto che le grandi potenze continuino a spendere in armamenti più che in qualsiasi altro settore sociale, sta a significare, in modo inequivocabile, che la forza gioca un ruolo di primo piano nei rapporti fra gli Stati.
Ma, se il diritto deve prescindere dall’idea di giustizia e deve dipendere dalla forza, come si fa a distinguere uno Stato di diritto da una banda di briganti? Ecco un’acuta osservazione di S. Agostino (La città di Dio IV,4):
Se non è rispettata la giustizia, che cosa sono gli Stati se non delle grandi bande di ladri? Perché anche le bande dei briganti che cosa sono se non dei piccoli Stati? È pur sempre un gruppo di individui che è retto dal comando di un capo, è vincolato da un patto sociale e il bottino si divide secondo la legge della convenzione. Se la banda malvagia aumenta con l'aggiungersi di uomini perversi tanto che possiede territori, stabilisce residenze, occupa città, sottomette popoli, assume più apertamente il nome di Stato…

22. Il principio di giustizia

A partire dall’età moderna, l’uomo ha capito che deve essere lui a creare il diritto, ma non ha ancora capito che nessun diritto può essere stabile se non è fondato su princìpi di giustizia universalmente condivisibili. Di solito, l’uomo tende ad associare l’idea di giustizia all’utopia o alla religione, tanto che qualcuno ha potuto affermare che “senza giustizia, non c’è Dio” (CAHILL 1999: 215), ma non al diritto. Certo, qualcuno potrebbe tendere a credere che ciascun uomo dovrebbe desiderare di vivere in un mondo giusto, ma così non è. Ci sono ancora molti uomini convinti che si possa fare a meno di una giustizia e che dobbiamo abituarci a convivere con un diritto «ingiusto».
Secondo taluni, infatti, la giustizia è da aborrire. “Se l’uomo riesce a creare una società in cui sia abolita l’ingiustizia – scrive Fukuyama –, la sua vita finirà con l’assomigliare a quella di un cane. Nella vita dell’uomo c’è però un curioso paradosso: sembra che l’ingiustizia sia necessaria, in quanto è la lotta contro di essa che fa venire alla luce ciò che vi è in lui di più alto” (1996: 325). Per Hayek, «giustizia sociale» “è una frase vuota priva di contenuto determinabile” (1994: 343); è “il cavallo di Troia tramite il quale ha fatto il suo ingresso il totalitarismo” (1994: 346). Secondo Hayek, le ingiustizie sociali devono essere accettate perché inevitabili: “la libertà è inseparabile da ricompense che spesso non hanno alcun nesso con il merito e vengono quindi percepite come ingiuste” (1994: 329). Hayek però è smentito dal “gioco del negoziato”. I giocatori sono due: il primo riceve cento dollari e deve dividerli con il secondo. Se questo rifiuta la parte che gli viene offerta, il denaro deve essere restituito ed entrambi perdono. In teoria ci si potrebbe aspettare che il primo giocatore offra al secondo un dollaro e questo dovrebbe logicamente accettare perché, in caso contrario, lo perde. In pratica si è visto che ciò non avviene: se non gli viene offerta una cifra vicina alla metà, il secondo giocatore non è disposto ad accettare e preferisce perdere la sua parte piuttosto che sottoscrivere una divisione non equa. Questo gioco dimostra che l’uomo è sensibile al principio di giustizia e si oppone all’iniquità.
Ma che cos’è la giustizia? Se la natura avesse risorse illimitate e inesauribili e se l’uomo non fosse egoista, non avrebbe senso parlare di giustizia. L’idea di giustizia esprime l’esigenza di trovare un equilibrio, da tutti condivisibile, fra disponibilità di risorse e bisogni individuali. Talvolta, anche contro le migliori intenzioni dell’uomo, è la fortuna che si oppone ad un’equa distribuzione delle risorse e crea disuguaglianze. La fortuna è tipicamente ingiusta perché è scollegata dal merito. Eppure Hayek sembra disposto ad accettarla: “La fortuna è un elemento inscindibile dal funzionamento del mercato, al pari dell’abilità” (HAYEK 1994: 325). La giustizia diventa, dunque, “un fine sociale” che l’uomo è chiamato a perseguire attivamente, lottando contro i capricci del caso. Per Platone è giusta la società in cui ciascuno adempie il suo compito (Rep. 441d-e) (ROSEN 1999: 91) controllare. Su ciò chiunque potrebbe essere d’accordo, ma il vero problema è: chi stabilisce cosa? I princìpi di giustizia non dipendono dalla volontà di una maggioranza (il fatto che la maggioranza possa approvare l’emarginazione delle donne dalla vita politica o l’istituto della schiavitù, non significa che ciò debba essere necessariamente giusto) e, tanto meno, dalla minoranza.
Le posizioni prevalenti sulla giustizia sono essenzialmente due. La prima pone l’accento sul fedele rispetto delle norme giuridiche e stabilisce che è giusto ciò che viene fatto in ottemperanza alla legge (giustizia formale o legale o astratta). È l’idea di Hobbes: “Agire giustamente è rispettare tutto ciò che le leggi comandano, purché esse siano state promulgate da un sovrano abbastanza potente da farle rispettare” (BOBBIO, MATTEUCCI, PASQUINO 2004: 396). È anche l’idea di Hans Kelsen: la norma giuridica si giustifica da se stessa e non in ordine ai suoi contenuti. Nell’ordinamento giuridico dello Stato lo studioso il pensatore austriaco vede solo norme gerarchicamente ordinate che si rimandano l’una all’altra. “Il fondamento della validità di una norma non può essere che la validità di un’altra norma” (1990: 217). In ultimo, Kelsen pone la cosiddetta «norma fondamentale», che può essere la volontà di Dio, la Costituzione scritta o la Consuetudine (1990: 252). La seconda idea di giustizia, invece, attribuisce il primato al giudizio dell’uomo e sostiene che il libero arbitrio, la libera interpretazione dei fatti debbano prevalere sulle fredde e rigide norme di legge (giustizia discrezionale o personale). Il principale limite della giustizia discrezionale consiste nel fatto che le posizioni degli uomini sono molto variabili, articolate e sfumate e che non esiste un’unica discrezionalità.
Nella realtà queste forme difficilmente possono sussistere allo stato puro e, generalmente, ci troviamo di fronte ad una qualche via di mezzo, dove può prevalere la legge formale o la discrezionalità. Ci limitiamo a ricordare la posizione meritocratica, che ritiene giusto dare a ciascuno secondo i propri meriti, indipendentemente dalle posizioni di partenza, quella ugualitaria, che ritiene imprescindibile garantire pari opportunità a tutti e quella utilitaristica, che si accontenta di migliorare le condizioni della collettività, anche a discapito di qualche individuo. Alcuni ritengono giusto avvantaggiare i migliori, i ricchi, i forti, i liberi, gli aristocratici, altri ritengono più giusto avvantaggiare i più deboli, altri ancora caldeggiano posizioni intermedie. In ogni caso si tratta di forme imperfette, che prestano il fianco a critiche. Infatti, se è vero, come dimostra l’esperienza, che non sempre la giustizia legale è giusta, è anche vero che la giustizia discrezionale spesso risulta condizionata dai rapporti di forza e dagli interessi di parte.
Le due forme di giustizia suddette (formale e discrezionale) costituiscono la giustizia positiva, che si esprime attraverso norme enunciate dall’uomo e alla quale si contrappone la giustizia naturale o divina, che è ritenuta universale e al di sopra qualsiasi legge e qualsiasi volontà umana particolare. Secondo la giustizia naturale tutti gli uomini nascono uguali e portatori degli stessi bisogni.

21. Il diritto internazionale

Il mondo è oggi costituito da una pluralità di Stati, ciascuno dei quali non è disposto a rinunciare al proprio potere sovrano e mal sopporta un’interferenza di norme internazionali sui propri affari interni e anche nei suoi rapporti con gli altri Stati. Così, “la giustizia internazionale rimane tuttora una speranza piuttosto che un’effettiva realtà” (CAPPELLETTI 1994: 385). Finora i tentativi compiuti allo scopo di creare una giustizia internazionale, in grado di superare una storia millenaria di nazionalismo, fonte di disastrosi conflitti, non hanno prodotto un’istituzione giurisdizionale veramente funzionale, soprattutto a causa del fatto che una giustizia internazionale viene vista come una fastidiosa interferenza negli affari interni dei singoli Stati, che rimangono saldamente legati ai vecchi pregiudizi nazionalistici e continuano a professare la superiorità della propria cultura rispetto alle altre. Così, se è vero che democrazia significa rispetto della dignità della persona, è anche vero che gli Stati democratici non sono immuni da atti di ingiustizia e di barbarie. “In conclusione, appare chiaro che la via che porta alla «giustizia internazionale» è estremamente lenta e difficile e che i risultati raggiunti finora sono tutt’altro che soddisfacenti” (CAPPELLETTI 1994: 385).
In mancanza di giustizia internazionale, in pratica i rapporti fra gli Stati sono regolati dal principio di forza. Ma anche gli stessi rapporti fra cittadini all’interno di uno Stato, in mancanza di un sistema di giustizia, finiscono col rientrare nella legge del più forte. Qualche debole speranza a tale riguardo è oggi riposta nell’Unione Europea, dove, per la prima volta nella storia, è riconosciuto a soggetti privati il diritto di agire in giudizio davanti alla Commissione europea dei diritti dell’uomo contro le pubbliche autorità del proprio Stato nazionale. Bisognerà vedere se tale istituzione avrà successo.

20. La Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea

Già dal Preambolo risulta chiara la volontà di mettere la «persona»al centro della politica: “Consapevole del suo patrimonio spirituale e morale, l’Unione si fonda sui valori indivisibili e universali di dignità umana, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà; l’Unione si basa sui principi di democrazia e dello stato di diritto. Essa pone la persona al centro della sua azione istituendo la cittadinanza dell’Unione e creando uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia”.
Particolarmente degni di menzione appaiono i primi due articoli della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (2000): il primo stabilisce che “la dignità umana è inviolabile”, il secondo che “ogni individuo ha diritto alla vita”. La novità di questi articoli risiede nel fatto che essi riconoscono la dignità e la vita come un diritto assoluto e incondizionato di ogni individuo. Ora, il diritto alla vita presuppone che a ciascun individuo venga riconosciuto un minimo necessario per la sussistenza, mentre dal diritto alla dignità consegue che l’ammontare del minimo debba essere tale da consentirgli una vita degna di un uomo. Tuttavia, queste conseguenze logiche non sembra siano state colte dai governanti, almeno finora.
Una delle più recenti e autorevoli Costituzioni, quella europea, firmata a Roma il 29 ottobre 2004, riconosce ben 54 diritti fondamentali ad “ogni persona”. Tra l’altro, per la prima volta nella storia, è riconosciuto al semplice individuo il diritto di appellarsi alla Corte europea contro uno Stato inadempiente. Ora, riconoscere che la ragione di un semplice individuo possa prevalere sulla ragion di Stato significa disconoscere un caposaldo di una tradizione millenaria, secondo la quale gli unici veri soggetti della politica erano i gruppi organizzati e, in ultimo, lo Stato, che li comprendeva tutti quanti, mentre l’individuo singolo non aveva spessore politico. Ebbene, adesso all’individuo è concesso di potersi muovere sullo stesso piano dello Stato, il che vuol dire sullo stesso piano di qualsiasi gruppo. Ne consegue che, né lo Stato, né qualsiasi gruppo organizzato, possono vantare una «superiorità» nei confronti dell’individuo, e questo, condotto alle estreme conseguenze, significa riconoscere la sovranità dell’individuo. Bisogna dire, però, che nemmeno queste conseguenze sono state colte dai governanti, almeno finora. Il problema è che è più facile enunciare un principio che metterlo in pratica. Ma la strada è segnata.

19. Il diritto europeo nel XX-XXI secolo

Ad eccezione che in Inghilterra, in Europa, i sistemi giuridici si ispirano al diritto romano, che pure è fatto oggetto di continue rielaborazioni prima da parte dell’imperatore e del papa, poi ad opera dei singoli monarchi assoluti, infine per l’azione dei governi parlamentari ottocenteschi. Questi ultimi, dovendo farsi interpreti delle nuove istanze che sorgono dall’individualismo liberale, curano e promulgano dei ben definiti sistemi di norme, chiamati Codici (il Codice civile francese risale al 1804, quello austriaco al 1811, quello italiano al 1865, quello tedesco al 1900), che, oltre a riconoscere le libertà personali (di pensiero, di associazione, di fede, di stampa, di insegnamento), sanciscono l’ingresso pervasivo dello Stato in tutti i settori della produzione e dei servizi. Il risultato finale di questo processo è il rafforzamento sia del ruolo dello Stato che della libertà privata dei cittadini, cui corrisponde la riduzione del peso politico di questi ultimi. “I campi in cui i sistemi giuridici hanno in genere aperto ulteriori spazi di libertà alle scelte degli individui sono quelle della vita intima, delle relazioni personali e della cultura [divorzio facile, diritto all’interruzione volontaria della gravidanza, piena libertà di espressione e di stampa] [...] Ma in tutti gli altri campi gli ordinamenti adottano regole che circoscrivono maggiormente le autonomie individuali” (BOGNETTI 1998: 51). La politica dello Stato domina su tutto e controlla il diritto.
Negli ultimi decenni, a causa della globalizzazione e del liberismo, stiamo assistendo ad un’inversione di tendenza, che comporta, da un lato, il ridimensionamento del ruolo dello Stato, dall’altro, la maggiore espressività dei localismi, la maggiore internazionalizzazione di molte aziende e la maggiore attenzione per i diritti dell’individuo, ossia dell’essere umano senza aggettivi. La realizzazione dell’Unione Europea si muove in questa direzione.

18. La Costituzione della Repubblica Italiana

Per quel che riguarda la Costituzione della Repubblica Italiana (1948), troviamo che essa conferma tutti i diritti su menzionati e conserva la centralità della famiglia (art. 29) e il diritto alla vita: “Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale” (art. 38). Un rimarchevole elemento di novità può essere individuato nella proclamazione perentoria di una Repubblica parlamentare e di una DR. È vero, infatti, che “la sovranità appartiene al popolo” (art. 1), ma è anche vero che essa può essere esercitata solo attraverso i propri rappresentati, liberamente eletti con suffragio universale (art. 48) e riuniti in due Camere parlamentari. “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere” (art. 70), mentre si concede autonomia alla magistratura, la quale “costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere” (art. 104). L’unica concessione alla DD è costituita dal riconoscimento del referendum abrogativo (art. 75).

I diritti riconosciuti dalla Costituzione italiana
Diritto di pari dignità sociale fra tutti i cittadini (art. 3)
Diritto di voto a suffragio universale (art. 48)
Diritto di abrogare una legge per mezzo di un referendum (art. 75)
Diritto di proporre disegni di legge (art. 71)
Diritto di rivolgere petizioni alle Camere per qualsiasi richiesta legislativa o altra necessità (art. 50)
Diritto alla libertà personale (art. 13)
Diritto all’inviolabilità del domicilio (art. 14)
Diritto alla libertà e segretezza delle corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione (art. 15)
Diritto alla libertà di circolazione e soggiorno (art. 16)
Diritto alla libertà di riunione (art. 17)
Diritto alla libertà di associazione (art. 18)
Diritto alla libertà di religione (art. 19, 20)
Diritto alla libertà di pensiero (art. 21)
Diritto al lavoro (art. 4)
Diritto all’istruzione (art. 33, 34)
Diritto alla tutela della salute (art. 32)

17. Gli Stati-nazione e la loro concezione del diritto nel XVIII-XX secolo

Nel periodo che sta a cavallo fra XVIII e XX secolo i soggetti politici, a livello internazionale, sono gli Stati: “i popoli e gli individui non hanno alcun peso” (CASSESE 2005: 11). “L’unica categoria di individui che acquista un certo peso autonomo è quella dei pirati”, che sono considerati pericolosi nemici di tutto il genere umano (CASSESE 2005: 12). È nell’Ottocento che il diritto internazionale comincia ad interessarsi degli individui e dei popoli, in special modo dopo la seconda guerra mondiale, allorché, per la prima volta, avviene il riconoscimento dei diritti degli uomini, in quanto individui e non in quanto appartenenti a qualche gruppo (CASSESE 2005: 25).
Tutte le moderne Costituzioni cosiddette democratiche si ispirano ai princìpi espressi nel XVII-XVIII secolo in Inghilterra, Usa e Francia. In questa sede ci limitiamo a fare un breve cenno sulla Costituzione della Repubblica Italiana e sulla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea.

16. La Dichiarazione universale dei diritti umani

Approvata dall’Assemblea generale dell’ONU (1948) e redatta in trenta articoli, la Dichiarazione universale dei diritti umani sancisce i diritti civili, politici, economici e sociali di ogni persona e li indica come un ideale comune da perseguire da parte di tutti i popoli della terra.
Art. 1 - “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”.
Art. 3 - “Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona”.
Art. 4 - “Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù”.
Art. 5 - “Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura (...)”.
Art. 16 - “La famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società e ha diritto a essere protetta dalla società e dallo Stato”.
Art. 17 - “Ogni individuo, da solo o in associazione con altri, ha il diritto di proprietà”.
Art. 18 - “Ogni individuo ha il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione”.
Art. 19 - “Ogni individuo ha il diritto alla libertà di opinione e di espressione”.
Art. 20 - “Ogni individuo ha il diritto alla libertà di pacifica riunione e di associazione”.
Art. 21 - “La volontà popolare è il fondamento dell’autorità dei poteri pubblici”.
Art. 25 - “Ognuno ha diritto a un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia (...)”.
Art. 26 - “Ogni individuo ha diritto all’istruzione”.
Rispetto alle Dichiarazioni francesi vi si notano molti elementi in comune, ma anche alcune differenze che, se ad un primo sguardo possono sembrare di scarso peso, in realtà hanno una non trascurabile importanza. Uno dei più rilevanti elementi di novità può essere indicato nell’abbandono del termine generico “uomo” e nella sua sostituzione coi termini, più chiari e specifici, di «individuo» e «persona». Così, tutti i diritti di cui sopra, insieme a quello, nuovo, della “dignità umana”, vengono ribaditi (art. 1) e riferiti ad “ogni individuo” (cfr. gli art. 3, 17, 18, 19, 20, 25) o ad “ogni persona” (cfr. gli art. 21, 22, 23, 25, 26), indipendentemente dalle distinzioni di razza, sesso, religione, lingua e cultura (art. 2). Per quel che concerne i diritti fondamentali, si evita di menzionare il diritto alla proprietà e lo sostituisce col diritto alla vita. Infatti l’art. 3 recita: “Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona”. Rimane il tentennamento tra DR e DD, che trova riscontro nei punti contenuti nell’art. 21, dove leggiamo: “1) Ogni persona ha diritto di partecipare alla direzione degli affari pubblici del suo paese, sia direttamente, sia attraverso rappresentanti liberamente eletti...; 2) Ogni persona ha diritto di accedere, in condizioni di uguaglianza, alle cariche pubbliche del proprio paese; 3) La volontà del popolo è il fondamento dell’autorità dei poteri pubblici...”. Non solo si riconosce il diritto alla vita ma, coerentemente col principio della dignità umana, si stabilisce anche che “ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente…” (art. 25). Questa concessione all’individualismo viene, tuttavia, temperata dall’elevazione della famiglia al centro dell’interesse politico: “La famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società e ha diritto a essere protetta dalla società e dallo Stato” (art. 16).

15. Le principali tappe dello sviluppo del diritto nell’età contemporanea

1751 Codice bavarese, uno dei primi Codici moderni.
1776 Dichiarazione dei diritti della Virginia.
1789 Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino.
1790 Edmund Burke antepone i concreti “diritti degli inglesi”, conquistati sul campo e trasmessi di generazione in generazione, agli astratti diritti proclamati dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino.
1791 Thomas Paine difende la Dichiarazione dall’attacco di Burke e sostiene che i diritti sono naturali e spettano ad ogni singolo uomo “in virtù della sua esistenza”.
1793 Nuova Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino.
1796 Per Jeremy Bentham non esistono diritti naturali: qualsiasi diritto deriva dalla legge positiva.
1804 Codice di Napoleone: a differenza di altri Codici, come quello bavarese (1751-4) o quello della Galizia (1797), che hanno valenza locale, il Codice di Napoleone verrà imitato da altri Stati e avrà ampia diffusione, con la conseguenza di apportare una certa uniformità di vedute in tema di diritto.
1832 L’enciclica Mirari vos di Gregorio XVI condanna le libertà di coscienza, di pensiero e di stampa.
1890 L’Atto contro la schiavitù condanna la schiavitù e il traffico degli schiavi.
1945 La Carta delle Nazioni Unite stabilisce che le Nazioni Unite promuovono il rispetto universale per i diritti dell’uomo in quanto tale (art. 55).
1948 Dichiarazione universale dei diritti umani da parte dell’ONU.
1965 La Costituzione Gaudium et spes riconosce la libertà di coscienza, purché sia conforme alle norme oggettive della moralità.
2004 Costituzione europea.

14. La Costituzione della Prima Repubblica francese

Quattro anni dopo, viene scritta la Costituzione della Prima Repubblica francese (1793). Vi si ribadisce l’esistenza di quattro diritti fondamentali del cittadino, che sono “l’uguaglianza, la libertà, la sicurezza, la proprietà” (art. 2) e la funzione strumentale dello Stato: “Il Governo è istituito per garantire all’uomo il godimento dei suoi diritti naturali e im¬prescrittibili” (art. 1). Stranamente non si include fra i diritti fondamentali il diritto alla vita e nell’art. 21 ci si limita ad affermare che la società deve la sussistenza non a tutti i cittadini, ma semplicemente a quelli “disgraziati”. Si conferma il riconoscimento dei diritti di pensiero, di stampa, di culto e di associazione (art. 7), del diritto di poter fare tutto ciò che si vuole entro i limiti del rispetto dei diritti degli altri (art. 6), del diritto di poter accedere liberamente a tutti gli impieghi pubblici, secondo i propri meriti (art. 5), dell’uguaglianza di fronte alla legge (art. 3). Si ribadisce anche il diritto alla proprietà privata e lo si specifica con queste parole: “Il diritto di proprietà è quello che appartiene ad ogni cit¬tadino di godere e disporre a suo piacimento dei suoi beni, delle sue ren¬dite, del frutto del suo lavoro e della sua operosità” (art. 16). Non si chiarisce, tuttavia, se per legittima proprietà debba intendersi solo quella che è frutto del proprio lavoro o anche quella che si riceve in eredità o si acquista per un semplice caso fortuito. Per la prima volta si indica nell’istruzione un “bisogno di tutti” (art. 22) e si sollecita il governo in direzione dell’istruzione di massa. Rimangono, tuttavia, alcuni punti ambigui, come quello espresso nell’art. 1, secondo il quale “lo scopo della società è la felicità comune” (che significa “felicità comune”?), o quello che recitava “la Legge è l’espressione libera e solenne della volontà ge¬nerale” (art. 4), o ancora quello, apparentemente cristallino, che stabilisce: “la sovranità risiede nel popolo; essa è una e indivisibile, imprescrittibile e inalienabile” (art. 25), che però rimane in bilico tra DD e DR, come si può desumere dagli art. 29 e 32. Nell’art. 29 si dichiara, in modo equivoco, che “ogni cittadino ha un eguale diritto di concorrere alla for¬mazione della Legge ed alla nomina dei suoi mandatari o dei suoi agenti”. Ora, se la prima parte dell’art. sembra deporre a favore di un sistema DD, la seconda parte invece è chiaramente DR, anche se lascia intravedere il principio del suffragio universale, ponendosi, sotto questo aspetto, in largo anticipo rispetto ai tempi. L’art. 32 istituisce di fatto il referendum popolare.
Nonostante i suoi limiti, la Dichiarazione del 1793 rappresenta il punto più avanzato del pensiero democratico. In particolare, essa costituisce un enorme salto di qualità rispetto al precedente sistema feudale e segna l’ingresso in quella che noi orgogliosamente siamo soliti definire età contemporanea. Ma una così profonda rivoluzione di pensiero non può non suscitare le critiche dei tradizionalisti e, in generale, da parte di tutti coloro che temono di perdere parte della propria autorità e del proprio potere. La principale opposizione viene dalla chiesa, la quale si dichiara contraria a tutti i princìpi della democrazia e condanna radicalmente la stessa modernità: nell’enciclica Mirari vos, Gregorio XVI dichiara assurda la pretesa di diritti individuali e bolla le libertà di coscienza, di pensiero e di stampa. Tutto il potere della chiesa non si rivela, tuttavia, sufficiente ad invertire il corso della storia e il fascino dei princìpi dell’illuminismo e del giusnaturalismo finisce per conquistare l’Europa e il mondo.

13. La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino

Ai tempi della Rivoluzione francese, i princìpi emersi nel corso della riflessione politica americana, insieme a quelli sollevati dall’illuminismo, si fondono dando origine ad un modo nuovo di concepire il cittadino e lo Stato. Emblematica del nuovo corso è la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789) promulgata ad opera dei rappresentanti del Terzo Stato, la quale, mentre di fatto decreta l’atto di morte dell’Antico Regime, può essere vista come l’atto di nascita dello Stato moderno, liberale e costituzionale, fondato sul riconoscimento dei diritti dei cittadini, che non si limitano a quelli enunciati da Locke (vita, libertà, proprietà), ma ne abbracciano tanti altri, come quelli all’istruzione, al lavoro e alla salute. È così che si affaccia alla storia lo Stato di diritto. In esso si proclama che “gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti” (art. 1). L’art. 2 specifica che i diritti di cui si sta parlando “sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione”, e stabilisce che “il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali ed imprescrittibili dell’uomo”. Della proprietà privata si dice che essa costituisce “un diritto inviolabile e sacro” (art. 17), mentre si riconosce una sorta di primato al diritto alla libertà. “La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri” (art. 4). Dal diritto alla libertà, genericamente intesa, scaturiscono altri diritti più specifici, come quello della libertà di pensiero e di opinione (art. 10-11): “ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo a rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla Legge” (art. 11). Un altro diritto riconosciuto è quello dell’uguaglianza di tutti di fronte alla legge (art. 6). Benché non vi sia esplicitamente espressa, l’uguaglianza di opportunità è riconosciuta a tutti i cittadini e, con essa, il principio meritocratico: “Tutti i cittadini […] sono ugualmente ammissibili a tutte le dignità, posti ed impieghi pubblici secondo la loro capacità, e senza altra distinzione che quella delle loro virtù e dei loro talenti” (art. 6). Su alcuni punti la Dichiarazione appare poco chiara o equivoca. Per esempio, quando si legge che “tutti i cittadini hanno diritto di concorrere, personalmente o mediante i loro rappresentanti, alla sua formazione” (art. 6), non è chiaro se si ritenga possibile una democrazia diretta; mentre equivoca appare l’espressione russoviana: “la Legge è l’espressione della volontà generale” (art. 6).
Il contenuto della Dichiarazione suscita fra gli intellettuali dell’epoca un vivace dibattito, che ha l’effetto di tenere viva l’attenzione sui diritti. Edmund Burke (1790) antepone i concreti “diritti degli inglesi”, conquistati sul campo e trasmessi di generazione in generazione, agli astratti diritti proclamati a parole dalla Dichiarazione, ma non applicati di fatto. Gli risponde Thomas Paine (1791), il quale rileva che quei diritti, conquistati o meno sul campo, non sono legati al censo, ma spettano ad ogni singolo uomo “in virtù della sua esistenza”, sono cioè diritti democratici e non aristocratici, come quelli inglesi.

12. Il diritto dei contemporanei

I princìpi illuministi, che si diffondono in Francia nel secolo XVIII, procedono nella stessa direzione e contribuiscono a far nascere il primo governo repubblicano dell’età contemporanea, quello degli Stati Uniti d’America. È il 4.7.1776 quando tredici Stati d’America proclamano la loro indipendenza dalla Gran Bretagna e lo fanno in nome degli inalienabili diritti naturali dell’uomo (vita, libertà e ricerca della felicità):
Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità; che per garantire questi diritti sono istituiti tra gli uomini governi che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che ogni qualvolta una qualsiasi forma di governo tende a negare questi fini, il popolo ha diritto di mutarla o abolirla e di istituire un nuovo governo fondato su tali principi…

Per la prima volta nella storia nasce un nuovo soggetto politico sulla base di presunti diritti universali di ogni uomo e, per la prima volta, i diritti (che si ispirano al pensiero di Locke) si riferiscono all’uomo in quanto tale e non più al suddito o al cittadino. Così, l’art. 1 della Dichiarazione dei diritti della Virginia (1776) recita: “Tutti gli uomini sono per natura ugualmente liberi e indipendenti e hanno certi diritti innati (...); questi sono il godimento della vita e della libertà, tramite l’acquisto e il possesso della proprietà, e la ricerca e il conseguimento della felicità e della sicurezza”. È una vera e propria rivoluzione, che viene a cambiare una lunga e consolidata tradizione.
Ebbene, in nome di questi diritti, i tredici Stati americani si ribellano allo sfruttamento coloniale e bollano Giorgio III di tirannide e di assolutismo dispotico. Ora, dovendo istituire un nuovo soggetto politico, i rappresentanti di quegli Stati si accordano per un governo federale e convengono di darsi una Costituzione. È la prima volta che un grande Stato federale si costituisce non già per volontà di un dio o di un re-conquistatore, ma per volontà di una frangia popolare, ed è la prima volta che la stessa frangia popolare si dà delle leggi, la Costituzione appunto, che è un chiaro prodotto della volontà di un’assemblea di cittadini. Questa storica svolta viene sancita dall’art. 2 della suddetta Dichiarazione, che recita: “Tutto il potere risiede nel popolo, e quindi deriva da esso”. Si afferma così il principio della sovranità del popolo, che soppianta quello della sovranità del re e che va ad aggiungersi al riconoscimento dei diritti naturali e universali, di cui ogni individuo è ritenuto portatore per nascita e non per concessione del monarca.

11. Il diritto in Inghilterra nel XVII secolo

Nel 1628 i membri del Parlamento inglese, in lotta contro le pretese assolutiste degli Stuart, sottoscrivono una petizione, nella quale chiedono (sarebbe meglio dire: ammoniscono) il re a non imporre tasse senza il consenso di tutti gli uomini liberi del regno, cioè i ricchi. Il re ovviamente cerca di opporsi in ogni modo a quello che lui vede come un tentativo di limitare il proprio potere ma, alla fine di una lunga lotta, nel 1689, il parlamento inglese proclama il Bill of Rights (carta dei diritti) e lo impone a Guglielmo d’Orange come condizione per salire al trono d’Inghilterra. Nel Bill of Rights si ribadiscono le richieste già espresse nella Magna Charta e si stabilisce che il potere monarchico (di fare e sospendere leggi, di imporre tributi, di mantenere un esercito stabile in tempo di pace) debba essere almeno parzialmente controllato dalla volontà del Parlamento, che i membri del Parlamento debbano essere eletti da tutti gli uomini liberi del regno, che si riconosca la libertà di parola e di stampa. È la prima forma di monarchia parlamentare. Di fatto, essa può essere considerata una sintesi fra un governo di tipo elitario e una democrazia rappresentativa di tipo censitario. Da questo momento i cittadini di alto censo potranno far valere le loro opinioni su ciò che dovrà essere ritenuto giusto e meritevole di entrare nel diritto del paese. È la presa d’atto che il diritto non deve servire unicamente agli interessi del principe e non deve coincidere con la sua volontà, ma dev’essere creato con la partecipazione dei cittadini. Siamo di fronte ad una svolta storica.

10. Il diritto dei moderni

Al di là degli enunciati ufficiali, l’idea di «impero» che domina tutto il medioevo si rivela impossibile da realizzare in modo pieno, in modo tale cioè che l’imperatore possa esercitare un controllo pieno di tutti i suoi vassalli. L’estensione del territorio e le spinte autonomiste sono tali da rendere insufficienti i pur rilevanti mezzi di cui l’imperatore dispone. Nella monarchia questo quadro cambia, almeno sotto il profilo quantitativo, perché è più facile per il sovrano controllare un territorio limitato e contenere le spinte autonomiste dei suoi vassalli, che non sono cessate col tramonto dell’impero.
Nel complesso, nei regimi di monarchia assoluta che si vanno affermando in Europa nel XVI-XVIII sec., il potere centrale è massimo e il diritto è costretto ad adeguarsi. Così, ora esso non si fonda più principalmente sulla consuetudine e su un ordine trascendentale, non proviene più da lontano e dall’alto, ma poggia sempre più sulla volontà del sovrano ed è subordinato alla sua politica. A questo punto però, il diritto viene a perdere la sua sacralità e si umanizza, entrando a far parte delle prerogative dell’uomo. Adesso non c’è più un diritto che viene dall’esterno o dall’alto: il diritto è un prodotto umano e spetta all’uomo definirlo e formularlo servendosi unicamente della sua ragione. Ed è qui che entra in scena la questione della giustizia. È possibile concepire e realizzare un diritto giusto, tale cioè che possa essere condiviso a livello universale? Nascono così le prime teorie moderne sul diritto: il giusnaturalismo di Grozio e il contrattualismo di Hobbes, Rousseau e Locke.
Il giusnaturalismo afferma che solo le leggi universali della natura sono giuste, che tali leggi sono conoscibili dalla ragione umana, e che una legge positiva è valida solo se è giusta, solo cioè se è in accordo con la legge naturale. Ecco allora che il baricentro del pensiero moderno comincia a spostarsi dal divino all’umano ed ecco che l’uomo comincia a riconquistare quel posto centrale, che ha perduto dai tempi di Protagora. Col giusnaturalismo le leggi universali divengono diretta conseguenza dei bisogni dell’individuo, ossia della stessa natura umana, e, in quanto tali, possono essere studiate e comprese. Il presupposto teorico su cui si muove il pensiero giusnaturalista è rappresentato dall’unicità della natura umana, che, a sua volta, presuppone l’unicità dei bisogni. Se tutti gli uomini sono accomunati dalla stessa natura e dagli stessi bisogni, allora è possibile invocare un’unica legge universale, che presiede e governa quella natura e quei bisogni, ma, nello stesso tempo, è anche possibile affermare il principio dell’eguaglianza fra tutti gli esseri umani, che diventano soggetti liberi e idonei ad assumersi responsabilità politiche, ivi compresa quella di organizzarsi in «popolo» e costituire lo Stato. In virtù di questa libertà e uguaglianza, diventa possibile immaginare l’idea di un «contratto sociale» e ciò spiega la perfetta integrazione che si stabilisce fra giusnaturalismo e contrattualismo.
Se il giusnaturalismo non fa altro che ripetere un pensiero che era già noto agli antichi, il contrattualismo costituisce la vera novità del pensiero moderno nel campo del diritto. Il contrattualismo è sostanzialmente il tentativo di fondare il diritto sul consenso degli individui, che viene operato da studiosi diversi e con modalità diverse: Locke giunge a giustificare la resistenza da parte dei cittadini nei confronti di un governo che violi i loro diritti naturali; Rousseau elabora i princìpi della democrazia diretta; Hobbes investe il monarca di un potere assoluto e da questo fa derivare il normativismo giuridico (giustizia è la corretta applicazione di una legge, ossia il contrario di arbitrarietà). Per Hobbes, non è la giustizia, ma l’autorità che crea la legge. La posizione di Hobbes non è sostanzialmente diversa da quella di Ulpiano, e, infatti, sia che al sovrano venga attribuita una natura divina, come tempi di Ulpiano, sia che si ritenga che egli riceva il suo potere dal popolo, come si comincia a credere ai tempi di Hobbes, in entrambi i casi ci troviamo di fronte ad una chiara proclamazione della legge del più forte, sia pur mascherata dietro la volontà divina o popolare.
Fra i principali contributi alla filosofia del diritto moderno dobbiamo ricordare la concezione utilitaristica di Hume e Bentham, che valuta il diritto sulla base dei benefici che esso apporta all’intero corpo dei cittadini, dal pensiero marxista, secondo il quale il diritto esprime la volontà di sfruttamento della classe dominante, che cesserà soltanto quando il comunismo avrà realizzato una società senza classi, e il positivismo di Comte, che prevede il superamento del diritto ad opera della scienza sociologica. Tutte queste teoria hanno in comune il fatto che mettono alla base del diritto le persone in carne ed ossa e i loro bisogni, chiama mole pure «popolo», «classi» o «cittadini».
Ma c’è un’altra linea di pensiero che trova spazio nell’età moderna e che merita di essere ricordata non solo e non tanto per la sua grande diffusione e notorietà, ma anche e soprattutto perché si colloca al polo diametralmente opposto a quello di tutte le altre teorie messe insieme e costituisce, pertanto, un prezioso punto di riferimento. Mi riferisco alla teoria della Ragion di Stato resa celebre da Machiavelli, la quale, messo da parte il popolo, insieme alle sue classi e alle sue persone, ritiene che l’unico punto di vista che meriti attenzione sia quello del principe. Per il pensatore fiorentino, l’unico soggetto libero e politicamente responsabile è il padrone e sovrano dello Stato, ossia il principe, e il diritto corrisponde a tutto ciò che contribuisce a rafforzare il potere del principe e a consolidare o estendere la sua proprietà privata, cioè lo Stato. Ciò significa che non c’è alcuna morale, né alcuna legge universale, cui il principe debba attenersi, che la legge corrisponde agli interessi del principe, che il fine giustifica i mezzi e che la ragion di Stato rende lecito ogni comportamento. Esattamente il contrario di quanto vanno sostenendo i giusnaturalisti e i contrattualisti. Nei secoli a venire la storia del mondo occidentale ha continuato ad oscillare tra questi due poli e ha condiviso da un lato le idee di Machiavelli, che ben traspaiono nel positivismo giuridico, quella particolare corrente di pensiero che vede il diritto con gli occhi del monarca, e dall’altro lato le idee del giusnaturalismo e del contrattualismo, che saranno alla base della proclamazione dei diritti dell’uomo, dell’individualismo e della democrazia. In questa seconda direzione si muoverà, nel XVII e XVIII secolo, l’Inghilterra, seguita dagli Stati Uniti d’America e poi dalla Francia, mentre il resto del mondo preferirà attestarsi su posizioni machiavelliche.

9. Il diritto dei medievali

Un messaggio nuovo, nel mondo del diritto, è quello che proviene da Cristo, il quale annuncia il superamento di ogni legge, compresa quella mosaica, e la sua sostituzione con la legge dell’amore, che si affermerà definitivamente, a livello planetario, al momento dell’imminente parusia, ma la parusia, come sappiamo, ritarda e ciò indurrà i cristiani a prendere posizione e a sviluppare una particolare concezione religiosa del diritto, la quale stabilisce che le leggi dello Stato devono rispecchiare la volontà di Dio, che è espressa nelle Scritture e interpretata dalla Chiesa. In pratica, si ritorna alla vecchia concezione di un diritto che cala dall’alto: che provenga da Dio o dalla Natura, dalla Chiesa o dall’Imperatore, poco cambia. E, infatti, la Chiesa non sa fare di meglio che prendere il diritto romano e incorporarlo nel Diritto canonico.
A partire dall’XI sec. il Codice giustinianeo comincia ad essere studiato nelle Università e da allora si diffonderà in Europa, correggendo e uniformando il pluralismo giuridico vigente. [In Italia ciò avviene per la prima volta a Bologna, dove nel 1060 un personaggio colto, di nome Irnerio, fonda una scuola di diritto.] In concomitanza con la diffusione dei commerci, il diritto romano serve egregiamente a soddisfare l’esigenza di disporre di un diritto comune e finisce con l’imporsi anche in alcuni paesi che non hanno conosciuto la dominazione romana o che l’hanno subita solo in modo marginale, e così sarà fino all’epoca della Rivoluzione francese, allorché esso verrà integrato sia nel Codice napoleonico, sia nelle moderne costituzioni dell’Europa occidentale.
In sostanza, nel medioevo osserviamo un duplice ordine di cose: da un lato si assiste al ritorno della originaria concezione del diritto, che non viene più considerato un prodotto della volontà umana, com’era avvenuto ad Atene, ma viene inserito in un ordine divino eterno e immutabile (il sistema feudale); dall’altro lato si sviluppa una crescente tendenza centrifuga, che è alimentata dall’insofferenza dei signori locali ad accettare il controllo da parte dell’imperatore o del papa. Da un lato, si afferma che tutto viene da Dio, che esiste un solo ordine naturale, una sola etica e un solo codice di norme e che la migliore forma di governo è quella che si affida ad un unico uomo, sia esso l’imperatore o il papa, il quale esercita un potere assoluto. Dall’altro lato, ogni vassallo aspira alla propria autonomia e rivendica la facoltà di fissare da sé i princìpi del diritto. Nel basso medioevo, quest’ultima concezione finisce col prevalere e così all’idea di impero universale succede quella della monarchia assoluta, che però, a ben guardare, non introduce sostanziali elementi di novità rispetto all’impero. Anche la monarchia, infatti, riproduce in piccolo l’ordine divino del mondo e anche il re trae il proprio potere direttamente da Dio. Anche nella monarchia, il paese appartiene al sovrano e la volontà del sovrano è legge.
Nella monarchia, insomma, si viene a ripetere quanto già era avvenuto nell’impero e avviene anche che molti signori locali vogliono rendersi autonomi dal sovrano, il quale si oppone. È in Inghilterra che per la prima volta nella storia si determinano le condizioni favorevoli ad un cedimento da parte del re. Il più famoso simbolo di questa nuova tendenza è certamente rappresentato dalla Magna Charta, un documento attraverso il quale Giovanni Senza Terra, nel 1215, riconosce alcuni diritti ai propri vassalli e si impegna non solo a non esigere tributi o aiuti militari, se non dopo aver ottenuto il consenso da parte del Consiglio Comune del regno (il futuro Parlamento), ma anche a riconoscere certi diritti ai propri sudditi (per es., al punto 14 si stabilisce che la pena debba essere commisurata al gravità della colpa e al punto 29, che nessun uomo libero possa essere condannato se non a seguito di un regolare processo). È la prima volta che un monarca accetta dei limiti al proprio potere e tratta i propri sudditi come soggetti di diritto, e ciò non può essere visto di buon occhio in un’epoca in cui il potere viene considerato dai più come sacro e assoluto. Quel che sta accadendo in Inghilterra, a molti deve sembrare scandaloso. Così Innocenzo III emana una bolla, con la quale annulla la Magna Charta, ma ormai il corso degli eventi risulta inarrestabile, tanto che Enrico III non può fare a meno di riconfermare le concessioni del suo predecessore (1217 e 1225). È l’inizio della modernità, ma solo in Inghilterra: nel resto d’Europa il medioevo continua, e rimane ancora la vecchia concezione del diritto che si fonda sul riconoscimento del potere assoluto del sovrano, secondo il celebre principio, già espresso da Ulpiano, che identifica il diritto con la volontà del principe.
Nel medioevo, la pragmaticità del pensiero di Ulpiano apre le porte alle posizioni giuspositiviste di Bartolo di Sassoferrato, Marsilio da Padova e Jean Bodin, che sono ferme al principio secondo cui ciò che il sovrano comanda è legge. Anche la chiesa rimane ferma sulle sue vecchie posizioni. Il Decretum Gratiani (XII sec.), infatti, continua ad affermare che il diritto naturale corrisponde ai princìpi espressi nella Bibbia e interpretati dal magistero ecclesiale. Tommaso d’Aquino (XIII sec.) parla di “legge eterna” in riferimento al governo che Dio esercita sul creato e afferma che il cosiddetto diritto naturale, ossia le leggi universali che la ragione umana è in grado di cogliere spontaneamente, altro non è che la stessa legge divina. Anche qui, il diritto che emerge è confacente con la concezione di un potere assoluto, che, in questo caso, proviene da una sfera non-umana e si identifica con un sistema politico teocratico.

8. Il diritto degli antichi

Le prime teorie sul diritto a noi note risalgono agli antichi pensatori greci (Eraclito, Parmenide, Empedocle, Pitagora), che, interrogandosi sulla natura di questo fenomeno sociale, tendono ad identificare l’ordine giuridico della società con un ipotetico ordine naturale dell’universo e a concepire un diritto universale e perfetto, che dovrebbe fungere da modello per le leggi umane. Il diritto esiste già come legge di natura. L’uomo non lo crea, lo scopre, non lo inventa, lo applica, non lo produce, lo riceve. È una concezione di tipo giusnaturalista, che sarà condivisa da Socrate, Platone, Aristotele e, in generale, dagli stoici, alla quale si oppongono i sofisti, gli epicurei e gli scettici, i quali sostengono la relatività delle conoscenze e delle istituzioni umane e, di conseguenza, vedono nel diritto un prodotto umano, imperfetto come tutte le cose umane. Ora, prevalendo, almeno a livello accademico, la concezione giusnaturalistica, i greci non ritengono di dover elaborare un’idea del diritto come scienza, allo stesso modo in cui hanno invece elaborato l’arte di fare politica: la politica è una questione di uomini, il diritto è una questione di natura. Il diritto è sacro e trae la sua sacralità dal fatto di essere sempre esistito, di far parte della consuetudine o di rappresentare una precisa volontà divina. La società lo trova già predisposto e lo sente come immutabile. Il diritto è la giustizia; non un oggetto di decisione, ma di conoscenza, e la politica dovrà subordinarsi ed ispirarsi ad esso.
Presso gli antichi predomina quest’idea che le leggi umane provengano da altrettante leggi divine e, dunque, è diffusa la convinzione che il diritto sia qualcosa di eterno, universale e immutabile, fissato dalla divinità (o dalla natura) una volta per tutte e che poi gli uomini traducono nelle loro leggi, che, in tanto sono valide, in quanto riproducono fedelmente i comandi divini o naturali. Ne consegue un primato del diritto sulla politica. Bisogna aspettare Eraclito perché tale dottrina venga, per la prima volta, enunciata con chiarezza, seguito da Platone, che fonda il diritto sull’idea di Bene, e da Aristotele, che distingue una legge universale, valida per tutti gli uomini, dalle leggi particolari (il cosiddetto diritto positivo). Sulla loro scia, gli stoici possono elaborare una teoria sistematica sulla cosiddetta legge naturale (legge universale, non scritta), che riconducono, in ultima analisi, alla ragione divina (logos). [La dottrina stoica si adatterà bene al pensiero cristiano e verrà largamente condivisa lungo tutto il medioevo.]
È opinione diffusa nell’antichità che le leggi scritte servano a garantire l’ordine sociale e a preservare lo Stato, e si ritiene anche che questa funzione pratica delle leggi scritte dipenda sia dall’esistenza di giurisperiti capaci di formularle, sia di un apparato giuridico, ampio e articolato, in grado di leggerle, comprenderle e farle rispettare. Ebbene, è presso gli antichi greci che, per la prima volta nella storia, si realizzano condizioni di questo tipo. Ad Atene, per esempio, non solo molti cittadini sono in grado di leggere e comprendere le leggi pubblicamente esposte nell’agorà, ma sono anche capaci di applicarle nei tribunali popolari. Di più: per la prima volta nella storia, molti pensatori greci maturano, come abbiamo visto, una chiara coscienza del fatto che le leggi non cadono dal cielo, non provengono da un dio, bensì sono opera degli uomini e, come tali, esse non costituiscono alcunché di misterioso o sacro, assolute o immutabile, ma sono contingenti, relative e perfettibili. Scrive Epicuro: “Non è la giustizia un qualcosa che esiste di per sé, ma solo nei rapporti reciproci e sempre a seconda dei luoghi dove si stringe un accordo di non recare né ricevere danno” (Massime capitali, XXXIII). Ora, se ogni popolo crea le sue leggi, e lo fa in rapporto alla sua storia, alla sua cultura e alle sue esigenze, lo stesso popolo può cambiarle e, in questo senso, il popolo è da ritenere superiore alla legge: l’assemblea è sovrana. Per la prima volta nella storia, i greci maturano consapevolezza del significato strumentale delle leggi, la cui esistenza si rende necessaria allo scopo di consentire una vita collettiva ordinata. Sotto questo aspetto, la legge è, e deve essere, superiore al singolo cittadino e tutti i cittadini sono, e devono essere, uguali davanti alla legge.
Su questi presupposti, gli ateniesi edificano un apparato giuridico e giudiziario di tipo adulto e partecipativo, nel quale l’assemblea dei cittadini promulga le leggi generali, che poi le giurie interpretano e applicano nei singoli casi concreti, tenendo conto del particolare momento e del particolare contesto. Insomma, gli ateniesi non si preoccupano di codificare rigidamente le norme di un diritto, che preferiscono lasciare alla libera interpretazione dei tribunali. Non possiamo dire che questo sistema sia privo di difetti: a volte il verdetto dei giudici può sembrare troppo arbitrario, troppo condizionato e condizionabile, troppo soggettivo e troppo libero, eppure non sembra che esso sia segnato da atti di mala giustizia più di quanto avvenga nei tribunali di altre città coeve della Grecia o di altre aree geografiche.
Nella Grecia arcaica i beni immobili appartengono alla collettività, che li assegna e li toglie a sua discrezione. La proprietà privata piena e individuale si afferma lentamente in seguito della diffusione della moneta, e cioè a partire dalla fine del VII secolo, ma solo parzialmente: significativo il fatto che i greci non hanno un termine proprio che indichi la proprietà privata del singolo cittadino. Per quel che concerne l’istituto familiare, basta ricordare che in tutto il mondo antico, in Egitto come in Mesopotamia, in Grecia come a Roma, la società è basata su un’entità collettiva di persone imparentate (la famiglia allargata, la gens, il clan, la stirpe, o qualunque altro modo in cui si voglia chiamarla, della quale fanno parte anche gli eventuali schiavi), che è tenuta unita da una figura centrale, generalmente il più anziano di sesso maschile, il quale si fa garante della memoria storica di un’ascendenza che si perde nella notte dei tempi.
A differenza dei greci, i romani si impegnano in un’impresa mai tentata prima: quella di raccogliere in modo metodico le norme giuridiche che vanno emergendo dalla consuetudine e di realizzare una grande opera, che potrà essere consultata dai giuristi in tutto l’impero. Quest’opera, che costituisce una sintesi di tutta l’attività giuridica svolta dai romani nell’arco di un millennio, a partire dalle XII Tavole, giungerà a compimento sotto Giustiniano e passerà alla storia col nome di «diritto romano», ma, agli inizi della storia di Roma, il diritto è concepito in modo diverso.
Fino a tutto il periodo monarchico, il diritto romano cala, per così dire, dal cielo; esso cioè ha carattere religioso e la sua interpretazione è affidata al re, in quanto rappresentante supremo del dio, e ai funzionari che il re intenda nominare, di solito capi militari, nonché ai sacerdoti, che abitualmente sono di estrazione elitaria. A rigore, non si tratta di leggi umane, ma del volere divino, che è interpretato da un uomo prescelto dalla stessa divinità (lex divina). A queste leggi positive si associa il variegato corpo delle norme consacrate dalla tradizione, le cosiddette «norme consuetudinarie» (i costumi dei padri o consuetudini locali). Fin qui non notiamo nulla di nuovo rispetto ai tempi di Hammurabi.
La necessità di leggi scritte viene avvertita ai tempi delle rivolte dei plebei, che caratterizzano i decenni della storia romana dopo la caduta della monarchia (510). Si racconta che nel 462 vengono nominati dieci magistrati (decemviri) con l’incarico di redigere un codice di leggi valide per patrizi e plebei. Ne nasce un Codice di leggi (450), che, dopo essere stato approvato dai comizi centuriati, viene inciso su Dodici Tavole di bronzo ed esposto nel Foro, dove rimarrà per sessant’anni, fino a quando cioè il Foro non viene distrutto nell’incendio di Roma ad opera dei Galli (390). [Non risulta che ne sia fatta una copia e, dunque, il testo dovrà essere tramandato oralmente o testimoniato in opere di autori diversi. Pare che lo scopo dichiarato delle XII Tavole fosse quello di liberare i plebei dall'arbitrio insostenibile della nobiltà patrizia, ma non sembra che tale obiettivo sia stato raggiunto pienamente.] Le XII Tavole rappresentano un esempio di leges datae, ossia di una legge elaborata da un’apposita Commissione, cui il popolo ha delegato tale potere, in via straordinaria. Nel periodo repubblicano, la prassi ordinaria prevede che una legge venga presentata all’assemblea del popolo da un magistrato, il quale chiede al popolo stesso di approvarla. Si parla in questo caso di lex rogata (da rogare = chiedere, interrogare). Di solito le leges rogatae portano il nome del magistrato proponente.
Tramontata la repubblica, cessa il ricorso alle assemblee popolari e le leggi sono emanate, almeno formalmente, dal Senato (senatusconsulta), dai singoli pretori (leges praetoriae) e, soprattutto, dall’imperatore (constitutiones principum), che costituisce la massima autorità legislativa e la principale fonte del diritto. I provvedimenti dell’imperatore possono assumere forme diverse: edicta (atti normativi rivolti a tutti i cittadini dell'impero); mandata (istruzioni indirizzate agli alti funzionari, che finiscono per diventare norme vincolanti per tutti); decreta (sentenze che l’imperatore emana su istanza delle parti, che rimettono all’imperatore la risoluzione di una controversia); rescripta (sono risposte date dall’imperatore a chi lo sollecita in merito a qualche questione. A differenza dei decreti, i rescritti vengono sollecitati da una sola parte). Non raramente finiscono per assumere valore di legge anche i pareri (consulta, responsa) espressi da singoli magistrati o giureconsulti, come Gaio, Paolo, Papiniano, Ulpiano e Modestino, tutti uomini che ricoprono alti incarichi a corte, tra il secondo e terzo sec. d.C.. Il primo corpo organico del diritto romano dopo le XII Tavole si forma progressivamente tra il 367 a.C. e 137 d.C. ad opera di pretori incaricati di risolvere le contese fra cittadini (ius civile) e fra cittadini e stranieri (ius gentium).
Dopo l’estensione del diritto di cittadinanza a tutti gli abitanti dell’impero (editto di Caracalla), la distinzione fra i due diritti perde di senso e rimane solo lo ius civile che, in realtà, è composto da tanti diritti diversi da provincia a provincia. Inizialmente, allo scopo di risolvere gli inevitabili conflitti tra i diversi diritti locali, si chiama in causa il senato o l’imperatore, i quali si possono servire della consulenza di esperti giuristi. Col passare del tempo, l’insieme dei pareri degli imperatori, del senato e dei giurisperiti finisce per creare un diritto romano uniforme e coerente, che può essere distinto in diritto privato, che attiene a beni dei singoli, e diritto pubblico, che riguarda i rapporti fra le magistrature.
Si deve all’imperatore Giustiniano la nomina di una commissione di dieci esperti col compito di realizzare una raccolta organica di tutta la produzione giuridica romana. Ne origina una monumentale opera, il Codex Iustinianus o Corpus iuris civilis, che viene pubblicata a partire dal 529 e che comprende: le Institutiones (una sintesi del diritto esistente), un Codex, che raccoglie numerose istituzioni imperiali, le Novellae (nuove costituzioni), il Digestum (vi sono illustrati i fondamenti del diritto classico).
Il diritto romano è centrato sulla divisione della popolazione in cittadini, liberti e schiavi. Gli unici soggetti che godono pienamente dei diritti politici sono i cittadini, anzi, per meglio dire, le loro famiglie, con importanti differenze in rapporto al censo. La famiglia è considerata un insieme di persone soggette alla potestà di uno solo, il padre, detto paterfamilias, che in pratica è l’unico cittadino che gode veramente dei diritti sociali e politici: non solo i minori, ma anche la donna è soggetta all’autorità del marito. Lo schiavo è considerato una «cosa», ossia un bene di proprietà del padrone, che però, a causa di particolari meriti, può essere affrancato dal padrone e assumere la condizione giuridica di liberto. Il diritto romano crea molteplici istituti che regolano la proprietà privata e distingue una proprietà indivisa del gruppo gentilizio dalla proprietà assoluta, piena ed esclusiva del paterfamilias. Del tutto ignorati sono invece i diritti fondamentali della persona: l’individuo diventa soggetto di diritto solo in quanto membro di una famiglia.
Al di là delle diverse elaborazioni teoriche e applicazioni pratiche del diritto, la realtà dimostra che, in fondo, il diritto corrisponde alla volontà del più forte, ossia di colui che dispone dei mezzi coercitivi atti a farlo rispettare. È il giurista romano Ulpiano a fissare questa acquisizione culturale nel suo celebre principio giuridico: “quanto piace al principe ha valore di legge”. La volontà del principe è il diritto. Il fatto è che la volontà del principe non potrebbe essere il diritto se lo stesso principe non fosse il più forte. E ciò vale anche se, al posto del principe, ci mettiamo un Consiglio oligarchico, un Parlamento o un’Assemblea popolare: nessun organo può esprimere un codice di leggi e tradurlo in diritto applicato se non disponga della forza necessaria a far rispettare quelle leggi.

7. Il diritto nell’età del bronzo: i primi Codici

Alcuni sovrani tentarono di mettere per iscritto le norme consuetudinarie, interpretandole alla luce della propria volontà. Nascevano così i primi Codici.
I primi Codici di cui abbiamo conoscenza apparvero circa 4 Kyr fa e sono passati alla storia come opera di grandi condottieri, che verosimilmente intendevano far sapere a tutti che il loro regno, per tanti anni tormentato da guerre, ora aveva un capo, un grande capo, tanto forte da poter garantire la pace e tanto saggio da meritare i favori di un dio e incarnare la sua volontà. È in quest’ottica che si può inquadrare la consuetudine, da parte di alcuni re, di far incidere il Codice su tavole di legno o lastre di pietra (stele), che poi venivano disposte nei punti più strategici del regno, accuratamente scelti dai funzionari in base alla loro frequentazione e alla loro visibilità, la maggior parte delle quali è andata perduta. Tra le stele ritrovate, la più famosa è certamente quella che riporta il Codice del re babilonese Hammurabi risalente al 374 BP. Il Codice di Hammurabi non costituisce il primo esempio di leggi scritte. Anche i Sumeri, infatti, avevano avuto leggi scritte. Basti ricordare i Codice di Ur-numma (ca. 4100 BP), di Lipit-Ishtar (ca. 2050 BP) e di Eshnunna (3900-3800 BP). Sono i primi Codici di una lunga serie: Codici ittiti (3400-3300 BP), Codici assiri (3400-3100), e via dicendo.
Il fatto che nessun Codice sia stato trovato in Egitto non ci deve sorprendere, se pensiamo alla natura divina che gli egizi attribuirono al faraone: in quanto dio vivente, la volontà del faraone era il diritto. Fu forse per preservare le prerogative divine del faraone che gli egizi rifiutarono di ingabbiare in un testo scritto la sovrana volontà del loro dio vivente. In Mesopotamia, invece, dove al re era attribuita una natura umana, i Codici di leggi divennero una consuetudine e, infatti, come abbiamo visto, i Neobabilonesi, gli Assiri, gli Ittiti, gli Ebrei, e altre popolazioni del Vicino Oriente Antico ebbero leggi scritte. Per comprendere da dove siano originate queste leggi, che cosa stabilivano, da chi siano state promulgate e a quale scopo, ritorniamo ad Hammurabi.
Hammurabi è uno dei tanti piccoli re che, nel XVIII sec., affollano la Mesopotamia e che, grazie a una coraggiosa e fortunata politica espansionistica, vuole realizzare un adeguato apparato amministrativo e consolidare il suo potere. A tale scopo, per prima cosa sostituisce i vecchi signori locali con governatori da lui nominati, i quali altri non sono che i capiclan che lo hanno coadiuvato nell’impresa di conquista, da cui pretende un giuramento di obbedienza e sottomissione: tutti devono far capo a lui, sommo re, prescelto dal più grande degli dèi per garantire sicurezza e prosperità ai suoi sudditi. Poi dà ordine che si scolpiscano su una stele di basalto i princìpi di giustizia eterna, che il dio stesso ha voluto comunicargli perché lui li faccia osservare e affinché il suo popolo sia felice. Ma che cosa rappresentano quei segni scolpiti sulla stele? Nella sommità è scolpita l’effigie del sovrano che riceve le leggi dal dio Enlil. Come dire: Hammurabi è stato prescelto da quel dio allo scopo di proclamare la giustizia nel suo paese. In questo messaggio è implicito l’obiettivo di indurre la gente a credere che quanti rispetteranno le leggi scolpite sulla stele saranno ritenuti virtuosi agli occhi del re e del dio e meriteranno ogni bene, mentre coloro che le infrangeranno saranno ritenuti malvagi e meriteranno una malasorte commisurata alla gravità e alla frequenza delle infrazioni.
Sotto un certo aspetto, il Codice potrebbe essere interpretato come uno strumento di democrazia, lo strumento attraverso il quale il sovrano affida ai propri funzionari il compito di mettere in forma scritta le leggi, affinché siano uguali per tutti. Ora, viene spontanea la domanda: dal momento che ai tempi di Hammurabi la stragrande maggioranza della gente è analfabeta, chi potrebbe controllare l’esatta applicazione della legge, se non proprio coloro ai quali è stato affidato il compito di amministrarla? Perché allora scolpire in modo così solenne delle leggi, il cui rispetto dipende unicamente dalla buona volontà dei signori locali? Insomma, a chi è indirizzato il messaggio racchiuso nella stele? E con quale intento? Una possibile spiegazione è che, in realtà, i Codici scolpiti su stele non costituiscono una conquista democratica, ma un gesto di propaganda politica. Essi simboleggiano il potere assoluto del re e la sua legittimazione divina a governare. Attraverso la stele, Hammurabi annuncia a tutte le popolazioni sottomesse che egli eserciterà il comando conferitogli dal dio e amministrerà la giustizia nel modo migliore possibile, e ciò è garantito dalla stessa divinità. Il significato profondo della stele, che può essere colto da ogni suddito e, ancor più, da ogni possibile pretendente al potere è di questo tenore: «Attenzione! Sappiate tutti che qui comanda Hammurabi per delega divina e chiunque rifiuti di sottomettersi sappia che dovrà fare i conti con la giusta e implacabile ira del grande re e del suo dio». È un’affermazione di potere, con la relativa minaccia rivolta a quanti non intendessero sottomettersi.
In quanto originate dal dio, le leggi scolpite sulla roccia (ai tempi di Hammurabi la scrittura è considerata un dono divino) devono rappresentare soprattutto un simbolo sacro di potere (così come lo saranno gli archi di trionfo e le colonne celebrative tanto in voga ai tempi dei romani), e sono indirizzate prevalentemente ai capiclan che potrebbero insidiare il primato del re, ma anche al popolo intero, che è chiamato a prendere atto dell’investitura divina del sovrano. Ai primi, Hammurabi annuncia: «Qui comando io, perché sono il migliore, il più forte, il prediletto del dio. Guai ai ribelli». Alle masse di sudditi, agli uomini in arme, agli artigiani e ai contadini, le stesse leggi scolpite vogliono essere un messaggio rassicurante, del tipo: «Tutto è sotto controllo, tutto è governato da un grande dio e da un grande re». Il testo delle leggi dev’essere ritenuto secondario rispetto alla stele in se stessa e alla sua simbologia profonda. Più che un’affermazione del diritto, si tratta, come si può ben vedere, di una conferma del tradizionale principio di forza, sancito da una tradizione secolare e ormai entrato a far parte della «consuetudine», ossia di quel particolare costume, spontaneamente affermatosi, secondo il quale al condottiero vittorioso è legittimato ad imporre la sua legge. Il diritto emana dal re ed è garantito da un dio. Questo è il principio che sta alla base dei primi Codici, che forse nessuno applicò mai in modo sistematico (la faida e l’ordalia continueranno, infatti, a sussistere), ma nei quali dobbiamo vedere un precedente assai importante per il successivo sviluppo del diritto.
Considerazioni analoghe si possono applicare anche alle «Tavole della legge» mosaiche. In entrambi i casi, questi simboli grafici, che risultano del tutto insignificanti per una popolazione analfabeta, hanno invece una profonda importanza per quello che rappresentano. In questi segni sacri, che solo i sacerdoti o i profeti sanno decifrare, sono racchiuse le verità che contano, le spiegazioni degli accadimenti storici, l’interpretazione della stessa vita e del mistero della morte. I sacerdoti e i profeti ebrei svolgono lo stesso compito dei funzionari di Hammurabi, con la sola differenza che in quel caso l’autore dei segni è il re, sia pure ispirato da un dio, mentre le tavole di Mosè sono scolpite direttamente dalla mano di Dio. Nel primo caso i funzionari fanno capo al re e questi si appella, in ultima istanza, a un dio; nel secondo caso, il sacerdote o il profeta traducono direttamente la parola di Jahve e non riconoscono alcun’altra autorità al di fuori del dio stesso. Anche quando, nel corso dei secoli, le leggi delle Tavole verranno trascritte nel rotolo della Torah, si continuerà a dire che essi sono opera divina. Ma quegli scritti, in realtà sono opera umana e, più precisamente, opera di intellettuali graditi alla classe dominante. E, infatti, se guardiamo alla storia della redazione dei testi biblici, troviamo appunto che essa è il prodotto di diversi interventi umani, operati dai gruppi dominanti del momento e avvenuti in luoghi e periodi diversi. Anche la Bibbia, dunque, può essere vista come strumento del potere sacerdotale allo stesso modo in cui la stele costituisce uno strumento del potere di Hammurabi.
Se adesso andiamo a leggere il contenuto testuale di questi antichi codici, sveliamo la concezione che avevano del diritto gli uomini dell’Età del bronzo. Ebbene, i Codici sumeri, assiri, babilonesi, ebraici e tutti gli altri, sostanzialmente si limitano a consacrare usi e costumi già operanti da secoli presso i clan dominanti, più o meno corroborati dall’apporto dei riformatori di successo. In ogni caso essi costituiscono la fotografia del modo in cui gli uomini di un determinato luogo concepiscono il diritto per ciò che concerne, ad esempio, la spartizione del bottino di guerra, la schiavizzazione dei vinti e la nuova piramide sociale che ne consegue.
Tra le prime norme del diritto vanno ricordate quelle che mirano a salvaguardare la sicurezza della persona e sono sostanzialmente di tre tipi. Il primo corrisponde alla cosiddetta legge del taglione: “Piaga per piaga, occhio per occhio, dente per dente, quanto ha fatto agli altri, tanto sia fatto a lui” (Lv 24,19). Stabilendo che l’autore del male debba essere ripagato con lo stesso male, la legge del taglione deve apparire, in tutta l’età del bronzo, come la massima espressione di giustizia. La seconda norma di giustizia è rappresentata dalla legge del contrappasso, che prevede la condanna del colpevole ad una pena ritenuta «proporzionata» alla colpa (le percosse al padre vengono punite col taglio della mano, la sodomia con l’evirazione, l’omicidio con la pena di morte, e via dicendo). La terza norma di giustizia è quella del risarcimento in natura o in denaro in rapporto al crimine commesso. “Se un uomo taglia il piede di un altro, sia condannato a pagare 10 sicli d’argento” (SAPORETTI 1998: 118). Le leggi del taglione e del contrappasso sono predominanti nel codice di Hammurabi, nella legge assira e in quella ebraica, mentre il principio del risarcimento prevale nel diritto sumerico e ittita. Non sono comunque queste le uniche forme di giustizia praticate nell’antichità: vanno anche ricordati il bando dal paese, la faida, il lavoro forzato per il re e l’ordalia, su cui non ritengo di dovermi soffermare in questa sede.
Accanto alle leggi che tutelano la sicurezza della persona, i codici antichi contengono anche altre norme, come quelle che tutelano il diritto ad essere ricompensati in rapporto al lavoro svolto, per esempio, “Il compenso mensile per la prestazione di un lavoratore è di 1 siclo d’argento, più 1 PI [PI = circa 50 litri] di orzo per il suo vitto” (SAPORETTI 1998: 148); il diritto a non essere defraudati dei propri beni (condanna del furto e risarcimento dei danni); il diritto in difesa dell’unità familiare (condanna dell’adulterio e della ribellione nei confronti dei genitori) e a tutela della famiglia, in quanto unica fonte di perpetuazione del genere umano e della forza lavoro: “Se una donna rimane vedova sia presa in moglie da un fratello del marito, e se poi anche i fratelli del marito muoiono, dal suocero [...]” (SAPORETTI 1998: 276); una vedova madre di figli che si sposi, dovrà impegnarsi insieme al nuovo marito a prendersi cura dei figli e ad amministrare il patrimonio del primo marito; e via dicendo.
Ci sono poi leggi in difesa della proprietà privata, che però non si riferisce mai a singoli individui, né ha il significato moderno di diritto pieno ed esclusivo su un bene. Tanto in Egitto quanto in Mesopotamia, l’istituto della proprietà privata si riferisce propriamente ad un dio: in teoria, ogni regno appartiene al suo dio, il quale, tuttavia, lo affida ad un personaggio di propria fiducia, generalmente il re. Non molto diversa è la concezione degli antichi ebrei. Anche per loro il proprietario della terra è Dio: “Un terreno non potrà essere venduto in modo definitivo, perché la terra appartiene a me, il Signore, e voi sarete come stranieri o emigrati che abitano nel mio paese” (Lv 25,23). Praticamente, il proprietario del regno è il re, il quale lo suddivide fra i suoi parenti e sostenitori, e questi, a loro volta, fanno altrettanto, così che, alla fine, il regno risulta suddiviso in tanti “feudi”, dove ai sudditi che si sobbarcano il lavoro bruto, viene concesso il diritto di trattenere la parte necessaria alla propria sussistenza, ma, nello stesso tempo, contraggono il dovere di versare l’eccedenza nelle casse dei loro signori e del re.
Queste leggi costituiscono certo un passo avanti nella storia del diritto, anche se si deve rilevare il fatto che esse non sono uguali per tutti, ma cambiano a seconda della classe sociale di appartenenza. Ai tempi di Hammurabi, per esempio, non tutti i sudditi hanno pari valore e si distingue tra uomo e donna, tra adulto e bambino, tra uomini liberi, semiliberi (i cosiddetti muskenum) e schiavi. Così, il codice prevede che se un chirurgo salva la vita di un uomo libero ha diritto ad un compenso di 10 sicli d’argento, se salva la vita di un muskenum, il compenso a lui spettante scende a 5 sicli, se salva la vita ad uno schiavo gli spettava una ricompensa di due sicli d’argento. Evidentemente la vita non ha lo stesso valore per tutti. Non molto dissimile è la concezione degli ebrei, che distinguono il capo famiglia dagli altri membri adulti di sesso maschile e gli uomini dalle donne.
Se il re può vedere nel rispetto delle leggi una garanzia di stabilità del proprio potere, se gli strati più bassi della popolazione possono riporvi la speranza di tutelare le proprie vite e se gli strati intermedi possono scorgervi il vantaggio della difesa dei propri averi, non è affatto detto che tutte le classi sociali abbiano ragioni per accettare di buon grado quelle leggi e osservarle senza condizioni. In particolare, a parte il re, tutti gli altri, tanto i poveri, che non hanno nulla da perdere, quanto i ricchi, che aspirano ad un ruolo di maggior prestigio e potere, possono avere qualche motivo per non essere soddisfatti dello status quo e sperare in un cambiamento, e ciò è causa di instabilità sociale. Perciò, il più delle volte, le conquiste militari danno luogo a ordini sociali effimeri e, in poche società, la pace imposta dal re e dalle sue leggi risulta essere un bene condiviso da tutti e una condizione stabile di governo. Solo in condizioni particolarmente fortunate un sistema sociale riesce a mantenere un equilibrio duraturo nel tempo, realizzare una coscienza di popolo, una unità culturale, religiosa e linguistica, una civiltà in grado di autoriconoscersi, autovalutarsi e confrontarsi positivamente con altre civiltà e culture, ad esempio, gli egizi, i babilonesi, gli assiri e gli ebrei.
Le classi sociali svantaggiate sono formate sostanzialmente da due categorie di persone: dagli schiavi, che di solito sono stranieri catturati in battaglia, e da tutti coloro che sono costretti a vendersi sotto il peso di debiti che non riescono a pagare. Si pensi alla legge: “Se un uomo ha trascurato di rinforzare l’argine del suo terreno per cui si sono verificate delle falle con conseguenti inondazioni, deve pagare una quantità di orzo pari a quella di cui ha causato la perdita. Se non è in grado di risarcire i danni sia venduto con tutti i suoi beni, e il ricavato sia diviso tra i proprietari dei campi il cui raccolto è andato distrutto” (SAPORETTI 1998: 168). Ecco un esempio di come si può diventare schiavi per debiti. Per costoro i singoli legislatori esprimono pareri diversi. A differenza del codice di Hammurabi, per esempio, nella piramide sociale descritta nella Bibbia non si fa menzione della categoria degli schiavi di guerra, sostanzialmente perché la cultura tribale ebraica ignora la guerra di conquista, mentre conserva le altre classi sociali e la schiavitù per debiti, che poi il legislatore sacro si affretterà a mitigare: un ebreo non potrà essere tenuto schiavo di un altro ebreo per più di sette anni.
Al di là degli specifici contenuti dei singoli diritti, quello che conta di sottolineare è che questi diritti non provengono mai dal basso, o dal popolo, ma dall’alto, dal re o da un dio, o da entrambi e acquistano così un carattere sacro, assumono un valore assoluto e immutabile. Il risultato concreto della promulgazione di leggi scritte è, dunque, quello di fissare delle regole chiare al fine di garantire un’amministrazione efficiente e la coesione sociale anche in un grande Stato. Ciò accontenta tanto il re, da cui la legge emana, quanto i sudditi, che possono contare su qualche punto di riferimento chiaro. Il tutto finisce col realizzare una coscienza e una cultura di popolo, in grado di autoriconoscersi, autovalutarsi e confrontarsi con altre culture.