lunedì 10 agosto 2009

2. Che cos’è il diritto?

Esistono due principali concezioni del diritto: il giusnaturalismo e il giuspositivismo.

I giusnaturalisti credono nell’esistenza di norme di diritto naturale, che sono giuste per definizione, ma anche anteriori e vincolanti nei confronti di qualunque legge dello Stato.
Una variante di giusnaturalismo può essere ritenuto il pensiero di Hayek, secondo il quale l’uomo è il prodotto di una lunga evoluzione biologica e culturale: “il suo pensiero e le sue azioni sono governate da regole che si sono evolute in base ad un processo di selezione avvenuto nella società in cui vive e che sono, pertanto, il prodotto dell’esperienza di molte generazioni” (1994: 18). Ma quali sono queste regole? Sono regole legate in parte a fattori a prevalente base genetica (comportamenti egoistici, l’altruismo parentale e di prossimità), in parte a fattori prevalentemente culturali (altruismo reciproco, rapporti di buon vicinato, tradizioni, usi e costumi). Dall’insieme di queste regole hanno preso forma i diversi sistemi sociali che si sono succeduti nel corso della storia. Si tratta di sistemi che possono essere di vario tipo (paritari o piramidali, democratici o aristocratici, agricoli o industriali, laici o religiosi, e via dicendo), in cui è possibile riconoscere una molteplicità di manifestazioni culturali (le istituzioni della guerra, della schiavitù, della nobiltà e della cittadinanza, della politica e del diritto, l’emarginazione delle donne e dello straniero, e altro ancora), che costituiscono altrettanti esempi di regole assai diffuse nel mondo antico e moderno e ad insorgenza spontanea, tanto è vero che erano ampiamente condivise anche dagli stessi individui svantaggiati.
L’insieme di queste regole, che danno corpo ad “una tradizione di norme di comportamento apprese, che non sono mai state «inventate», e di cui generalmente gli individui non capiscono la funzione” (HAYEK 1994: 531), abitualmente vengono osservate dagli uomini in maniera immediata e acritica e connotano i tratti culturali di una società. La stima che Hayek nutre per le capacità dell’uomo di creare cultura è sorprendentemente bassa. Secondo lo studioso, il cervello umano “è un organo che permette di assorbire, ma non di progettare, la cultura” (HAYEK 1994: 535). “Gli strumenti base della civiltà – lingua, morale, diritto e moneta – sono tutti il risultato di uno sviluppo spontaneo e non di un progetto intenzionale (HAYEK 1994: 542). Insomma, “l’uomo non è e non sarà mai il padrone del proprio destino” (HAYEK 1994: 559). Pertanto, il compito del legislatore dovrebbe limitarsi a formalizzare le regole di cui sopra e, semmai, ad apportarvi qualche lieve modifica, cosa che, secondo Hayek, hanno fatto tutti i famosi antichi legislatori, i quali “non intendevano creare un nuovo diritto ma semplicemente formulare ciò che il diritto era, ed era sempre stato” (1994: 105).
A torto, secondo Hayek, gli antichi greci hanno creduto che il diritto fosse creato unicamente dalla volontà umana, perché in tanto una legge può ritenersi giusta e autorevole in quanto essa traduce in modo formale un principio giuridico già esistente e operante. Insomma, il diritto esiste prima della legge e l’intervento del legislatore si limita a codificarlo in norme di legge, sì da renderlo applicabile in tutti i casi particolari. “Persino quando egli, nell’adempimento di questa funzione, crea nuove regole, non diviene il creatore di un nuovo ordine, ma la sua opera resta al servizio del mantenimento e rafforzamento dell’ordine già esistente e funzionante” (HAYEK 1994: 149). Secondo Hayek, in definitiva, “nessun sistema giuridico è mai stato progettato nella sua interezza, e perfino i tentativi di codificazione non possono essere nulla più che una sistemazione di un corpo di norme esistenti” (1994: 127).
Secondo alcuni, il diritto naturale descritto dal giusnaturalismo non esiste. “La varietà dei costumi, le loro trasformazioni nel tempo ci hanno dimostrato che non esiste un diritto naturale. La natura non prescrive niente. La natura conosce solo la legge della sopravvivenza del più adatto” (ALBERONI 1993: 6). L’unico diritto naturale sarebbe quello del più forte.

I giuspositivisti fanno coincidere il diritto con le leggi positive dello Stato, senza tener conto se esse siano giuste o meno: le leggi dello Stato devono essere sempre rispettate, anche se ingiuste. Ebbene, nella storia del diritto, la posizione giuspositivista ha prevalso nettamente (Derrida 2003: 60). Oggi sono in molti a credere che questo diritto “è stato usato come strumento di potere e di mobilitazione, e per esercitare il controllo sulle risorse umane e naturali” (NADER 1993: 119). Il diritto positivo è un fatto culturale complesso e, insieme allo Stato, origina dalla convergenza di interessi di una moltitudine di capiclan, che decidono di unirsi politicamente per dare una migliore risposta alle esigenze delle singole famiglie e delle singole persone. Le norme del diritto emanate nel corso della storia rispecchiano la necessità di dare una risposta ai bisogni dei clan dominanti, secondo la particolare cultura del momento.
Una variante di giuspositivismo può essere ritenuto il pensiero di Francis Fukuyama. Abbiamo visto che, in generale, nella società liberale delineata da Hayek non c’è spazio per il diritto positivo e la giustizia rimane una parola vaga e priva di reale significato. La società è un frutto spontaneo e non c’è niente e nessuno in grado di esprimere un giudizio di valore sulle regole esistenti, che sono buone per definizione. L’autorità politica svolge una funzione secondaria e, al limite, potrebbe anche non esserci. Di diverso avviso è Fukuyama.
“La biologia umana – riconosce lo studioso – crea una predisposizione a risolvere problemi riguardanti il modo di agire collettivo, ma le particolari regole e metaregole scelte da un dato gruppo di individui rappresentano una regola culturale, non un prodotto della natura” (1999: 244). Per Fukuyama, non sempre le società “saranno in grado di trovare soluzioni di ordine spontaneo” (1999: 275), specie quando sono molto numerose e quando sono formate da gruppi legati da rapporti instabili e che non parlano la stessa lingua. E poi non è detto che una regola sia da considerare buona, solo perché si è formata in modo spontaneo. “Regole malvage, inefficaci o controproducenti possono permanere nel sistema sociale per generazioni” (FUKUYAMA 1999: 282). “Ciò significa che l’ordine spontaneo non rappresenterà mai l’ordine di per sé in nessuna società. L’autorità razionale gerarchica, sotto forma di legge ufficiale imposta gerarchicamente, dovrà servire da integrazione (FUKUYAMA 1999: 284). Secondo Fukuyama, “la gerarchia è necessaria per correggere i difetti e i limiti dell’ordine spontaneo” (1999: 301) e, d’altra parte, l’uomo ama l’organizzazione gerarchica, ciò che non ama è trovarsi in fondo alla scala. Nel suo complesso, la società di Fukuyama è dominata dalla volontà del più forte, che plasma, modifica e crea la gerarchia dei valori morali, disegnando il profilo culturale di una popolazione o di uno Stato.

È recente la presa di coscienza che il diritto deve ubbidire a princìpi di giustizia condivisibili da ogni essere umano, dev’essere cioè un diritto «giusto». “La nozione di diritti umani è fondata sulla nostra umanità condivisa. Essi non derivano dalla cittadinanza o dall’appartenenza a una nazione, ma sono considerati prerogativa di ogni essere umano” (SEN 2002: 69). Oggi, quando si parla di diritti, immancabilmente, ci si viene a trovare a tu per tu con l’individuo. Prendiamo le libertà (di parola, di pensiero, di coscienza, di stampa, di associazione, e via dicendo). Esse ineriscono esclusivamente al soggetto individuale e non al clan o allo Stato. Il clan e lo Stato non pensano, non hanno coscienza, non scrivono e non si associano: tutte queste azioni sono, in realtà, compiute da esseri umani individuali. È questa la ragione per cui, quando si parla di diritti, non si può fare a meno di parlare di persone in carne ed ossa. E lo stesso vale per i bisogni, perché i diritti si fondano su bisogni: non avrebbe senso parlare di diritti se non ci fossero bisogni. Ebbene, si può parlare di diritti (o di bisogni) di un gruppo o di uno Stato solo in senso metaforico e solo in quanto ogni gruppo e ogni Stato sono formati da individui. Il diritto giusto è quello che origina dai bisogni delle persone.

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