lunedì 10 agosto 2009

9. Il diritto dei medievali

Un messaggio nuovo, nel mondo del diritto, è quello che proviene da Cristo, il quale annuncia il superamento di ogni legge, compresa quella mosaica, e la sua sostituzione con la legge dell’amore, che si affermerà definitivamente, a livello planetario, al momento dell’imminente parusia, ma la parusia, come sappiamo, ritarda e ciò indurrà i cristiani a prendere posizione e a sviluppare una particolare concezione religiosa del diritto, la quale stabilisce che le leggi dello Stato devono rispecchiare la volontà di Dio, che è espressa nelle Scritture e interpretata dalla Chiesa. In pratica, si ritorna alla vecchia concezione di un diritto che cala dall’alto: che provenga da Dio o dalla Natura, dalla Chiesa o dall’Imperatore, poco cambia. E, infatti, la Chiesa non sa fare di meglio che prendere il diritto romano e incorporarlo nel Diritto canonico.
A partire dall’XI sec. il Codice giustinianeo comincia ad essere studiato nelle Università e da allora si diffonderà in Europa, correggendo e uniformando il pluralismo giuridico vigente. [In Italia ciò avviene per la prima volta a Bologna, dove nel 1060 un personaggio colto, di nome Irnerio, fonda una scuola di diritto.] In concomitanza con la diffusione dei commerci, il diritto romano serve egregiamente a soddisfare l’esigenza di disporre di un diritto comune e finisce con l’imporsi anche in alcuni paesi che non hanno conosciuto la dominazione romana o che l’hanno subita solo in modo marginale, e così sarà fino all’epoca della Rivoluzione francese, allorché esso verrà integrato sia nel Codice napoleonico, sia nelle moderne costituzioni dell’Europa occidentale.
In sostanza, nel medioevo osserviamo un duplice ordine di cose: da un lato si assiste al ritorno della originaria concezione del diritto, che non viene più considerato un prodotto della volontà umana, com’era avvenuto ad Atene, ma viene inserito in un ordine divino eterno e immutabile (il sistema feudale); dall’altro lato si sviluppa una crescente tendenza centrifuga, che è alimentata dall’insofferenza dei signori locali ad accettare il controllo da parte dell’imperatore o del papa. Da un lato, si afferma che tutto viene da Dio, che esiste un solo ordine naturale, una sola etica e un solo codice di norme e che la migliore forma di governo è quella che si affida ad un unico uomo, sia esso l’imperatore o il papa, il quale esercita un potere assoluto. Dall’altro lato, ogni vassallo aspira alla propria autonomia e rivendica la facoltà di fissare da sé i princìpi del diritto. Nel basso medioevo, quest’ultima concezione finisce col prevalere e così all’idea di impero universale succede quella della monarchia assoluta, che però, a ben guardare, non introduce sostanziali elementi di novità rispetto all’impero. Anche la monarchia, infatti, riproduce in piccolo l’ordine divino del mondo e anche il re trae il proprio potere direttamente da Dio. Anche nella monarchia, il paese appartiene al sovrano e la volontà del sovrano è legge.
Nella monarchia, insomma, si viene a ripetere quanto già era avvenuto nell’impero e avviene anche che molti signori locali vogliono rendersi autonomi dal sovrano, il quale si oppone. È in Inghilterra che per la prima volta nella storia si determinano le condizioni favorevoli ad un cedimento da parte del re. Il più famoso simbolo di questa nuova tendenza è certamente rappresentato dalla Magna Charta, un documento attraverso il quale Giovanni Senza Terra, nel 1215, riconosce alcuni diritti ai propri vassalli e si impegna non solo a non esigere tributi o aiuti militari, se non dopo aver ottenuto il consenso da parte del Consiglio Comune del regno (il futuro Parlamento), ma anche a riconoscere certi diritti ai propri sudditi (per es., al punto 14 si stabilisce che la pena debba essere commisurata al gravità della colpa e al punto 29, che nessun uomo libero possa essere condannato se non a seguito di un regolare processo). È la prima volta che un monarca accetta dei limiti al proprio potere e tratta i propri sudditi come soggetti di diritto, e ciò non può essere visto di buon occhio in un’epoca in cui il potere viene considerato dai più come sacro e assoluto. Quel che sta accadendo in Inghilterra, a molti deve sembrare scandaloso. Così Innocenzo III emana una bolla, con la quale annulla la Magna Charta, ma ormai il corso degli eventi risulta inarrestabile, tanto che Enrico III non può fare a meno di riconfermare le concessioni del suo predecessore (1217 e 1225). È l’inizio della modernità, ma solo in Inghilterra: nel resto d’Europa il medioevo continua, e rimane ancora la vecchia concezione del diritto che si fonda sul riconoscimento del potere assoluto del sovrano, secondo il celebre principio, già espresso da Ulpiano, che identifica il diritto con la volontà del principe.
Nel medioevo, la pragmaticità del pensiero di Ulpiano apre le porte alle posizioni giuspositiviste di Bartolo di Sassoferrato, Marsilio da Padova e Jean Bodin, che sono ferme al principio secondo cui ciò che il sovrano comanda è legge. Anche la chiesa rimane ferma sulle sue vecchie posizioni. Il Decretum Gratiani (XII sec.), infatti, continua ad affermare che il diritto naturale corrisponde ai princìpi espressi nella Bibbia e interpretati dal magistero ecclesiale. Tommaso d’Aquino (XIII sec.) parla di “legge eterna” in riferimento al governo che Dio esercita sul creato e afferma che il cosiddetto diritto naturale, ossia le leggi universali che la ragione umana è in grado di cogliere spontaneamente, altro non è che la stessa legge divina. Anche qui, il diritto che emerge è confacente con la concezione di un potere assoluto, che, in questo caso, proviene da una sfera non-umana e si identifica con un sistema politico teocratico.

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